RISORGIMENTO NEGATO: «La tratta dei Napoletani»

Al trattamento dei prigionieri di guerra da parte piemontese la rivista dei Gesuiti «La Civiltà cattolica» aveva dedicato una staffilante paginetta. Un suo anonimo corrispondente da Genova si era infatti imbattuto a più riprese in un numero talmente elevato di prigionieri borbonici sbarcati sul molo dalle navi provenienti dal Sud, da fargli scrivere che «negli Stati Sardi esiste[va] proprio la tratta dei Napoletani», «uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima»(55). Frase volutamente ad effetto, che utilizzava contro il governo di Torino l’argomento polemico della riduzione in schiavitù di uomini dalla pelle bianca, proprio nel momento in cui negli Stati Uniti il presidente Lincoln si accingeva a proscrivere le catene per gli uomini dalla pelle nera. Per di più si trattava di un articolo pubblicato su di una autorevole rivista cattolica, proprio nel momento in cui fortissima era la polemica vaticana contro gli usurpatori che avevano violato la sovranità pontificia per la seconda volta, occupando dopo Legazioni e Romagne anche Marche e Umbria. Ma questa constatazione non cancella il problema. La minuziosa attenzione riservata nelle pagine precedenti ai vertici militari sconfitti non deve farci dimenticare che l’universo dei vinti in divisa presentava situazioni di maggiore e più rilevante drammaticità. Decine di migliaia di soldati e graduati di truppa si apprestavano a fare i conti con un futuro denso di incognite.

Nel Carteggio Cavour il primo a parlare di prigionieri fu il ministro degli Interni Luigi Carlo Farini, incaricato di accompagnare Vittorio Emanuele II nella sua passeggiata militare verso Napoli. Scrivendo a Cavour da Bologna, lo informava che il corteo reale aveva preferito raggiungere Ancona per mare non solo «per far più presto», ma anche «per evitare l’incontro de’ prigionieri che ingombravano tutta la via» (56). Si riferiva ai soldati pontifici (umbri, marchigiani, laziali) che divisero la sorte dei napoletani nei campi d’internamento militare. Anche la Cronaca di Enrico Bottrigari contiene dei riferimenti fino ad ora non raccolti. Leggiamo così che il 24 settembre 1860 «passarono presso Bologna ben 1500 prigionieri pontificii di guerra, per la maggior parte gendarmi », contro di essi «furono gettati degli sputi sul viso e dette contumelie, in onta alle raccomandazioni della truppa che tenevali in custodia» (57). Il calvario si protrasse dal primo pomeriggio fino alla mezzanotte, quando i prigionieri furono messi in un treno diretto a Torino. Il 27 settembre toccò ad appena 150 soldati; il 2 ottobre nuovi prigionieri, in numero imprecisato, «furono trattenuti molto tempo fuori porta San Vitale a quattro miglia dalla città, perché il popolo, vedendoli, non trascendesse ad atti di sdegno e di contumelie»; altri 700 prigionieri arrivarono il 3 ottobre «e ripartirono come i primi per Torino» (58).

Per avere «verso i prigionieri un lodevole e decoroso contegno» bisognò attendere il 9 e 10 ottobre, quando molti «austriaci e svizzeri scortati dai 25° battaglione bersaglieri» entrarono in città; senza però trattenervisi, dato che, quasi subito, «gli uffiziali austriaci prigionieri partirono da Bologna per essere diretti in patria» (59). Il 23 ottobre fu la volta di un «convoglio di 850 prigionieri» scortato da Rimini a Bologna «da due compagnie della Guardia [nazionale] mobile ferrarese»; nel frattempo era stato «sospeso fino a cose finite ogni invio alle case loro de’ prigionieri di guerra»: si era infatti diffusa la voce che molti dei soldati rilasciati fossero stati nuovamente «accolti fra l’esercito pontificio e borbonico» dato che a Roma non tenevano «alcun conto degli obblighi giurati da’ prigionieri» (60). Già da un paio di settimane Enrico Bottrigari aveva raccolto in città voci di critica per la «troppa clemenza verso tutti i prigionieri di guerra» manifestata dal governo di Torino; era stato soprattutto censurato il fatto «di lasciare liberi di recarsi alle case loro […] i gendarmi pontificii, i quali potrebbero causare non poche pubbliche o private vendette» (61). Ma, in realtà, su questo malanimo diffuso nei confronti dei vinti in uniforme, poteva aver influito il massiccio afflusso di soldati napoletani ai quali, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, si pensò bene di riservare un trattamento di rigore non previsto dalle stesse leggi di guerra.

Il 7 ottobre 1860 al Quartier generale marchigiano di Vittorio Emanuele II giunse un dispaccio da Napoli; lo aveva spedito l’ambasciatore Villamarina per annunziare che Garibaldi sul Volturno aveva fatto «1500 prigionieri che ha mandato a Genova» (62). Per il momento il re sembrava non apprezzare gli atteggiamenti draconiani, tanto che a Macerata dette ordine di «mettere in libertà circa 1000 prigionieri di guerra pontificii» (63). Ma l’attraversamento del confine sul fiume Tronto e l’entrata nel Regno delle Due Sicilie coincisero con un diverso modo di affrontare la questione. Il 20 ottobre 1860 negli Abruzzi, al passo del Macerone vicino Isernia, furono presi «prigionieri il generale Douglas-Scotti e 40 o 50 ufficiali colla bandiera del 1° Reggimento di linea e 700 uomini di bassa forza» (64). Il comandante borbonico si era dimostrato un inetto, al pari di molti altri generali borbonici tra Sicilia e Calabria, ma era un anziano gentiluomo e provò ad arrendersi con eleganza. Luigi Douglas-Scotti, si rivolse al vittorioso Cialdini, sforzandosi di trovare le parole che gli sembravano adeguate: «la sorte delle armi mi fu contraria, ma nella coscienza di avere compiuto il mio dovere consegno la mia spada nelle mani di Vostra Eccellenza» (65). Scuro in volto, borbottando incomprensibili minacce, senza mai fissare in viso il nemico vinto Cialdini, palesemente infastidito, ordinò a un suo ufficiale di prendere in consegna il generale borbonico e i suoi ufficiali.

Cinque giorni più tardi, Cavour, che probabilmente non aveva ancora percepito le dimensioni di massa del fenomeno, chiedeva al contrammiraglio Persano di «inviare i prigionieri napoletani a Genova» (66). Una settimana più tardi, alle cinque del pomeriggio del 2 novembre 1860 si arrese la piazzaforte di Capua: erano stati fatti «10.500 prigionieri con 6 generali»; era inoltre caduto in mani piemontesi un ingente quantitativo di materiale da guerra: «290 cannoni di bronzo, 160 affusti; 20.000 fucili; 10.000 sciabole; 80 carri; 240 metri di ponte; 500 cavalli e muli, oltre le munizioni di ogni genere, e grandi magazzini di vestiario» (67). Dopo la resa, «le truppe furono avviate a piedi a Napoli, per essere trasportate in uno dei porti di Sua Maestà il re. Erano 11.500 uomini, bella gente, ben vestita» (68).

Il 13 novembre Cialdini informò Della Rocca di aver fatto altri 1900 prigionieri, di cui 1000 prontamente spediti a Napoli, in attesa di nuova destinazione. Pian piano, dall’antica capitale borbonica e, quasi certamente, da altri porti meridionali i prigionieri venivano ammassati nei piroscafi diretti a Genova, città raggiungibile in quattro o cinque giorni di navigazione in condizioni igieniche malsane, con razioni alimentari quasi inesistenti, a cominciare dall’acqua, putrida e centellinata con parsimonia. Da Genova i prigionieri avrebbero proseguito verso l’interno, in Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta, nei campi d’internamento militare, guardati a vista da squadroni di cavalleria e da reparti di Guardia Nazionale mobilizzata per evitare ribellioni e possibili fughe.

Nel frattempo, il conte di Cavour aveva pensato di riutilizzare quel materiale umano, incaricando il generale La Marmora di un’ispezione nei campi di prigionia. Senza di essa, oggi ignoreremmo quali dovettero essere le condizioni igieniche dei prigionieri nei campi d’internamento militare. Il 18 novembre 1860, il generale La Marmora visitò i primi campi di prigionia a Milano trovandosi di fronte a 1600 soldati borbonici in condizioni igieniche indescrivibili, «tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi o da mal venereo»; con sua grande sorpresa questo «branco di carogne», «questa canaglia», «questa feccia» rifiutava di arruolarsi tra le truppe sarde; i prigionieri «pretendevano aver il diritto di andar a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco secondo»69. Ma il generale La Marmora evitava di dire se quei soldati così malati erano stati affidati a medici militari piemontesi, come del resto non chiariva perché mai quella massa puzzolente di infelici non fosse stata rivestita, utilizzando le migliaia di uniformi borboniche nuove, a suo tempo sequestrate nei magazzini militari di Capua e di Napoli.

Quando però il ministro della Guerra Fanti, che era a Napoli con Vittorio Emanuele, chiese al presidente del Consiglio di noleggiare all’estero delle navi a vapore «pei 30 o 40.000 prigionieri di guerra» (70), Cavour, che fino a quel momento aveva sottovalutato il problema, messo di fronte a quelle cifre, si rese finalmente conto del rischio di una frattura endemica nel tessuto ancora poco saldo di uno Stato artificiale – in quanto appena costituito – e si allarmò. Telegrafò immediatamente al Luogotenente Luigi Carlo Farini suggerendogli di «rifletterci ancora sopra prima di spedire qui tutte le truppe napoletane», dato che si trattava di un «atto impolitico sotto tutti gli aspetti»; senza contare che «trattare tanta parte del popolo da prigionieri non [era] mezzo di conciliare al nuovo regime le popolazioni del regno»; concordava però con La Marmora sull’inopportunità di reclutare come soldati i prigionieri napoletani, invitando quindi i colleghi Farini e Fanti, a nome del Consiglio dei ministri, a «soprassedere almeno per qualche tempo dallo spedire a Genova quegli ospiti incomodi» (71). Anche se il punto di vista di Cavour era pragmatico e non certo umanitario, va tuttavia rilevato che un abisso separava il suo approccio dal paradigma poliziesco dei suoi proconsoli a Napoli.

Il 30 novembre 1860 il generale Enrico Cialdini comunicò a Farini che il generale borbonico Palmieri con i suoi 10.000 soldati, dopo essersi consegnato ai francesi nello Stato Pontificio, in seguito aveva chiesto di essere rimpatriato con tutti i militari napoletani che lo avevano seguito. Ma il ministro della Guerra Fanti, che pure aveva preso così a cuore la sorte di ufficiali superiori e generali avversari, tanto da attivarsi nel tentativo di neutralizzare le rappresaglie di Silvio Spaventa, viceversa, sui soldati semplici aveva idee diverse. Così, ordinò «per telegrafo di dichiarar loro e a tutti quelli che potessero venire in appresso che saranno considerati come prigionieri di guerra, e che a questa sola condizione si permetterà loro di rimpatriare» (72). Lo stesso generale Enrico Cialdini, che pure in Spagna nella guerra carlista aveva fatto proprie le regole non scritte della spietatezza verso gli avversari, riteneva che il ministro Fanti esprimesse una posizione «molto impolitica»; a suo modo di vedere «la parola prigioniero di guerra spaventa e ferisce, mentreché non significa poi nulla, non potendo noi in fin dei conti tener prigioniera tutta questa gente» (73).

I fatti lo avrebbero smentito, perché non solo i prigionieri continuavano a venir ammassati nei centri di smistamento, ma gli stessi smobilitati borbonici a cui a suo tempo Garibaldi aveva concesso di tornare a casa cominciarono ad attirare su di sé l’attenzione del Luogotenente Farini, al quale dava fastidio che gli smobilitati vestissero la divisa dell’esercito di uno Stato scomparso. Ora, in una società di penuria dove il vestiario era considerato un genere di lusso, era normale che gli ex soldati tornati alla vita civile come contadini, braccianti o pastori, conservassero per anni gli unici pantaloni e le sole giubbe che avessero mai indossato, quelle militari. Lo si è visto anche in questo secondo dopoguerra. Ma per Farini questo riutilizzo era «grave cagione di scandalo e disordine», tanto da indurlo a proporre che la legislazione penale si arricchisse di nuove sanzioni, sembrandogli «necessario il decretare che nissuno possa più portare uniformi borboniche» (74). La gravita dei problemi del Mezzogiorno ebbe presto ragione della fibra di Farini che si usurò definitivamente. Il suo collaboratore Filippo Curletti commentò che «l’antico governatore dell’Emilia [era] arriva[to] a Napoli pieno di fede nella sua abilità e nel suo avvenire; in capo a pochi mesi ei ne partiva spogliato delle sue illusioni e nel più profondo scoraggiamelo» (75).

La sua sostituzione con il principe Eugenio di Carignano non servì però a risolvere il problema dei prigionieri napoletani, dato che il 14 gennaio 1861 anche il nuovo Luogotenente chiese a Cavour l’autorizzazione «per inviare ad Ancona 3000 prigionieri fatti dalle nostre truppe non essendoci personale sufficiente a custodirli sul posto» (76), senza che il governo riuscisse «a comprendere da dove [fossero] salt[ati] fuori questi 3000 prigionieri» (77). Un mese più tardi, dopo la capitolazione di Gaeta, il Luogotenente disponeva l’internamento di «2000 prigionieri a Capri, 800 a Nisida, 500 a Baia, 800 a Precida e 1000 a Bagnoli» e di un numero imprecisato a Ponza ed Ischia (78).

Ma il peggioramento delle «condizioni sanitarie dei prigionieri reclusi nelle isole» di Ischia, Ponza, Favignana, Ventotene, Nisida, Precida, Santo Stefano, fornì a Cavour una via d’uscita umanitaria, consigliando al principe Eugenio «di rinviare [i prigionieri] in congedo ai loro domicili, seguendo le condizioni fissate dalla capitolazione di Gaeta» (79). In un’altra lettera il presidente del Consiglio riteneva di dover spiegare al Luogotenente Carignano che

il genere della guerra combattuta fra italiani, le simpatie che desta ancora in parte della Europa la dinastia esautorata, la necessità stessa di conservare al Governo del Re quell’aureola di generosità e di moderazione che circonda il nome di Vittorio Emanuele, impedivano d’altronde di trattare con tutto il rigore delle leggi della guerra le guarnigioni ostinatesi alla difesa di quelle due fortezze (80).

Ma la questione dei prigionieri non veniva risolta con la liberazione dei soli relegati sulle isole. Rimanevano a migliaia gli internati nelle province settentrionali. Riferendosi a quel rigore il legittimista Giacinto De Sivo scrisse:

tenevano i Napolitani prigionieri in castelli subalpini, barbaramente, su fradicia paglia affamati, con panni da state in crudo verno! sì tartassandoli per indurii a pigliar la livrea. Sempre rispondevano no: messi in luoghi stretti e umidi, gridavano viva Francesco! ligati allora a due a due, e mandati in fortilizi lontani, come potevano fuggivano, o a casa o a’ Tedeschi (81):

cioè nelle province austriache del Veneto e del Trentino.

Il numero di prigionieri napoletani deportati in Piemonte fu talmente cospicuo da attirare l’attenzione della stampa anti-unitaria. Così, fin dal 26 gennaio 1861, il giornale torinese «L’Armonia» del battagliero don Giacomo Margotti, citando fonti del ministero della Guerra, scriveva che «il numero degli ufficiali napoletani prigionieri ascende[va] alla rispettabile cifra di 1700» mentre «quello dei soldati che si trovavano nello stesso caso non [era] forse inferiore di 24.000» (82). Dal canto suo, «La Civiltà cattolica», organo dei Gesuiti, scelse il registro del sarcasmo, ipotizzando una possibile conquista partenopea che avrebbe permesso di «vedere la bandiera di Francesco II sventolare sulla torre del palazzo Madama». Ne abbiamo accennato, era quella anonima corrispondenza da Genova che univa al pregio della sintesi uno stile vivace. Vi venivano descritti gli arresti operati «da Cialdini in gran quantità», con i soldati sconfitti stipati «ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali» (83). L’anonimo articolista asseriva di aver «visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato» (84). Secondo questa cronaca, si trattava di uno «spettacolo doloroso che si rinnova[va] ogni giorno in via Assarotti, dove [c’era] un deposito di quegli sventurati.

Sempre secondo «La Civiltà cattolica» centinaia di prigionieri napoletani rinchiusi nella fortezza di Fenestrelle, spinti dalla fame, iniziarono a cospirare; «e se non si riesciva in tempo a sventare la congiura, essi impadronivansi del forte di Fenestrelle, e poi unendosi con migliaia di altri napoletani incorporati nell’esercito piombavano su Torino » (85). Tra i luoghi di prigionia più tristemente noti vi erano la fortezza di Fenestrelle a una settantina di chilometri dalla capitale, il forte San Benigno a Genova e i campi di Alessandria e di San Maurizio, nel Canavese a una ventina di chilometri da Torino, dove «ottomila di questi antichi soldati napoletani vennero concentrati». Il quotidiano liberale «L’Opinione» scrisse che «a tutela della sicurezza pubblica sia dei dintorni, sia del campo, furono inviati a San Maurizio due battaglioni di fanteria». Ma secondo la rivista dei Gesuiti si trattava di una stima per difetto che non teneva conto di «qualche batteria di cannoni, alcuni squadroni di cavalleria e più battaglioni di bersaglieri; tanto ne hanno paura!» (86).

Sul destino dei prigionieri di guerra napoletani c’è ancora oggi una pagina bianca da scrivere, quella della loro piccola storia di infiniti patimenti, e una cifra nera da mettere a fuoco, relativa al loro numero complessivo, al periodo di tempo trascorso nei campi d’internamento militare (mesi? anni?), al numero di morti registrati per malattie, per fame, per freddo. Potrebbe rivelarsi una semplice leggenda a fosche tinte, quella secondo cui dal forte di Fenestrelle vennero smontati i vetri e gli infissi, per rieducare con il freddo i segregati. A giudicare dal tenore di queste righe pubblicate dalla rivista dei Gesuiti, non ve n’era alcuna necessità:

Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie (87)!

Non sappiamo neppure quanti tra quegli antichi soldati siano riusciti a sopravvivere, rientrando nelle terre d’origine. Ma qualunque sia stato il numero dei sopravvissuti: dalle poche centinaia alle diverse migliaia; qualunque sia stata la durata del loro periodo d’internamento militare, non importa se computabile in mesi o in anni, è ipotizzabile che i reduci possano aver tratto da quella loro esperienza un’indicazione per il futuro antitetica rispetto alla profilassi draconiana tentata da Farini, Spaventa, La Marmora. Odiati come ex nemici in armi, derisi come soldati di Franceschiello, disprezzati come cafoni meridionali, rientrati nei loro paesi d’origine, gli antichi prigionieri recuperarono la loro natura di quadri militari nell’insurrezione contadina del Mezzogiorno continentale, detta del grande brigantaggio.

 

ROBERTO MARTUCCI

In L’INVENZIONE DELL’ITALIA UNITA 1855-1864 – Sansoni

Foto: RETE

 

 

 

NOTE

54 «La Civiltà cattolica», a. XII, 1861, XI, serie quarta, p. 617,

55 Ivi, p. 752.

56 Luigi Carlo Farini a Cavour, Bologna, 30 settembre [1860], in La liberazione del Mezzogiorno, cit.., Il (agosto-settembre 1860), p. 397.

57 Enrico BOTTRIGARI, Cronaca di Bologna, cit, vol. III (1860-1867), p. 107.

58 Ivi, p. 113.

59 Ivi, p. 119.

60 Ivi, p. 129.

61 Ivi, p. 119.

62 [gen. Paolo Solaroli], Diarii delle campagne, cit, p. 327.

63 Ibidem.

64 II ministro della Guerra Fanti a Cavour, Sulmona, 20 ottobre 1860, in La liberazione del Mezzogiorno, cit, vol. III (ottobre-novembre 1860), p. 148.

65 Citato da Pier Giusto JAEGER, Francesco II di Borbone l’ultimo re di Napoli, cit., p. 153.

66 Cavour al contrammiraglio Persano, [Torino] 25 ottobre 1860, in La liberazione del Mezzogiorno, cit, vol. III (ottobre-novembre 1860), p. 188.

67 II generale Enrico Morozzo Della Rocca a Cavour, S. Maria P. Capua, 3 novembre 1860, ivi, p. 274.

68 Generale Enrico Morozzo Della Rocca, Autobiografia di un veterano, cit., p. 85.

69 II generale La Marmora a Cavour, Milano 18 novembre 1860, in La liberazione del Mezzogiorno, cit, vol. III (ottobre-novembre 1860), p. 355, n. 1.

70 II ministro della Guerra Fanti a Cavour, Napoli, 19 novembre 1860, ivi, p. 347.

71 Cavour a Luigi Carlo Farini, Torino, 21 novembre 1860, ivi, pp. 354-355.

72 II generale Enrico Cialdini a Luigi Carlo Farini, Quartier generale di Castellone, 30 novembre 1860, ivi, p. 410.

73 Ibidem.

74 Luigi Carlo Farini a Cavour, Portici, 11 gennaio 1861, in La liberazione del Mezzogiorno,

cit, vol. IV (dicembre 1860-giugno 1861), p. 201.

75 [Filippo Curletti], Rivelazioni, cit, p. 28.

76 II principe Eugenio a Cavour, Napoli, 14 gennaio 1861, in La liberazione del Mezzogiorno, cit, vol. IV (dicembre 1860-giugno 1861), p. 206.

77 Cavour al Principe Eugenio, [Torino] 15 gennaio 1861, ivi, p. 214.

78 II principe Eugenio al generale Enrico Morozzo Della Rocca, Napoli, 14 febbraio 1861, in Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Campagna del 1860-61 per l’unità d’Italia, Repertorio G3, vol. 24 n. 27-28, Prigionieri pontifici e napoletani, citato in Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, cit, p. 34.

79 Cavour al principe Eugenio, [Torino] 9 marzo 1861, in La liberazione del Mezzogiorno, cit, vol. IV (dicembre 1860-giugno 1861), p. 358.

sventurati».

80 Cavour al principe Eugenio, [Torino] 12 marzo 1861, ivi, pp. 363-364.

81 Giacinto DE Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, cit, voi. Il, p, 354.

82 «L’armonia della religione con la civiltà», 26 gennaio 1861, n. 23, citato in Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, cit, p. 33.

83 «La Civiltà cattolica», a. XII, 1861, XI, p. 752.

84 Ibidem.

85 Ibidem.

86 Ivi, p. 752.

87 Ivi, p. 367.

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