Apollo: il dio «dai lucenti riccioli d’oro»

Apollo con la lira, frammento di affresco dalle vicinanze della casa di Augusto, al Museo Palatino di Roma.

 

Di chiara matrice microasiatica, la figura di Apollo denota una profonda ambivalenza fra le valenze positive di dio solare e quelle terrifiche di dio vendicatore. Riuscendo a riunire tale profonda antinomia in una complessa ma organica sintesi divina, Apollo costituisce l’idea di una progressiva spiritualizzazione delle pulsioni umane. Grande benefattore dell’umanità per aver generato Asclepio, dio della medicina, Apollo è anche sommo profeta di Zeus. Quest’ultima prerogativa lo porta a essere anche l’eloquente e saggio dio per eccellenza, colui che è in grado di assumersi il compito di legislatore fra gli uomini. Questo dio è figura estremamente complessa, simbolo della vittoria sugli istinti della natura umana, che egli spiritualizza sempre di più, costituendo una sintesi perfetta di slancio e raziocinio, violenza e tranquillità.

 

A Delo, dopo un parto ostacolato e doloroso, Latona generò dapprima Artemide, poi, un po’ prematuramente, Apollo. Inginocchiata sul prato, la dea era aggrappata con le mani all’unico albero dell’isola: la Terra e il Cielo sorrisero nell’attimo stesso in cui il bimbo vide la luce. Tutte le dee accorsero felici, gridando il loro stupore e la loro gioia, indi lavarono il bimbo divino in acqua pura e lo avvolsero in fasce legate con un nastro d’oro. Invece del latte della madre, Themis lo nutrì con nettare e ambrosia, e il piccolo acquistò immediatamente una forza e un vigore da adulto.

Tutta la terra emanava soavi profumi e per il cielo volavano festosi cigni che fecero per sette volte il giro dell’isola, circondata da un magico chiarore per lo scorrere aureo del fiume Inopo. Zeus stesso offrì meravigliosi doni al figlio appena nato: una mitra d’oro, una lira e un carro trainato da cigni fatati. Il Re del Cielo ordinò poi al fanciullo di andare a Delfi, ma i cigni lo condussero prima nel paese degli Iperborei, dove dimorò per un anno, ricevendo onori e culto interminabili.

Ritornato in Grecia, Apollo giunse a Delfi, accolto da danze e festeggiamenti degli uomini e della natura: ogni animale esultava e ogni fonte non fu mai più limpida. In effetti l’arrivo a Delfi non fu casuale, che la città doveva essere teatro di una sua dura lotta con il serpente Pitone, guardiano di un oracolo di Themis e acerrimo persecutore di Latona. Tanti erano i danni che il mostro provocava nel paese e tale era il risentimento che il dio provava per le malefatte alla madre incinta, da spingerlo senza indugio all’attacco.

Egli lo colpì ripetutamente con le frecce, ma il mostro ferito cercò scampo neIla fuga e, poi, trovò rifugio in un tempio. Nel sacro luogo, non certamente deputato a un assassinio, Apollo lo finì. La Madre Terra, oltraggiata dalla violazione del tempio, si rivolse a Zeus e chiese immediata ammenda. Spinto dai rimproveri del padre e dai mortificanti richiami al dovere di sua sorella, Apollo s’apprestò a trovar rimedio al sacrilego atto dettato dall’ira. Egli fondò in onore del mostro ucciso, i Giochi Pitici, s’impossessò dell’oracolo di Themis e consacrò nel tempio un Tripode, simbolo del suo potere profetico.

Ma la Madre Terra non era ancora placata. Il giovane dio si recò allora a Tempe, in Tessaglia, per fare pubblico atto di espiazione. Egli era tuttavia convinto che quanto già aveva fatto a Delfi fosse sufficiente a riscattare la sua colpa che, in effetti, era stata fatta a danno di un essere abietto e spregevole. Anche gli abitanti di Delfi erano del suo stesso parere, infatti avrebbero poi ripetuto ogni otto anni una commemorazione dell’uccisione (del drago) e della purificazione (del dio). Anche il Tripode ebbe una storia avventurosa: per esso nacque una contesa fra il figlio di Latona ed Eracle, figlio di Alcmena, che se ne voleva impadronire. Fu provvidenziale l’intervento di Zeus, loro comune genitore, che scagliò la folgore fra i suoi due figli e, per consiglio e aiuto di Atena, riconciliò il dio con l’eroe.

Come tutti i figli devoti, Apollo era molto legato a sua madre, che, per la sua debolezza di donna indifesa, forse richiedeva una maggiore attenzione, rispetto alle altre madri. Un giorno, egli stava serenamente suonando la sua lira, quando, ancora una volta, si rese necessario il suo intervento in favore della madre. A Latona, infatti, appartatasi in un boschetto per compiervi alcuni riti, tentò violenza il gigante fallico Tizio, istigato da Era. Artemide e il suo fratello gemello, udendo le urla strazianti della madre, si precipitarono armati. La punizione del Gigante — ucciso da un nugolo di frecce — fu inesorabile. Tizio continuò a soffrire nel Tartaro, dove Zeus (che pure gli era padre) lo condannò a una orribile tortura: le sue enormi braccia e gambe furono eternamente e solidamente fissate al suolo.

Si narrava, inoltre, l’episodio apollineo dell’uccisione del satiro Marsia. Atena aveva ricavato da ossa di cervo un doppio flauto e lo suonò a un banchetto in Olimpo. Mentre lutti i numi presenti gradivano con estasi la soave musica, Era e Afrodite ridacchiavano maliziose, coprendosi il volto fra le mani. Sbalordita da tale atteggiamento, Atena si appartò in un boschetto, dove riprese a suonare rimirandosi in un ruscello. Fu tanta la sua disperazione nel vedersi così ridicola con le gole gonfie e di mille colori, da lanciare immediatamente  via lo strumento e da maledire chiunque lo avesse raccolto.

L’ignaro Marsia, raccolto per caso il flauto, iniziò a suonarlo in modo così melodioso da riscuotere subito un enorme successo. Chiunque lo ascoltava lo riteneva suonatore più abile di Apollo, e il misero satiro sorrideva timido e soddisfallo alle adulazioni. Ma Ira i lati negativi del dio biondo c’era quello di essere estremamente suscettibile e vendicativo.

Egli chiamò il salirò a una contesa musicale e affidò il giudizio insindacabile alle nove Muse. Una volta risultato vincitore, Apollo non ebbe che da dare sfogo al suo risentimento. La vendetta fu crudele: scorticò vivo il povero e ingenuo Marsia e ne appese la pelle a un pino.

Dio della divinazione e della musica, i suoi oracoli erano espressi in versi poetici e quella con Marsia non fu l’unica gara musicale che vinse. In un’altra occasione, egli si scontrò con il dio Pan — arbitro era il re Mida — e lo sconfisse.

Al di là dei suoi patronati, della sua benevolenza, della sua predilezione per la vendetta più accanita e delle sue doti di preveggenza e di sapienza, Apollo era essenzialmente caratterizzato da una notevole bellezza. Il bel volto giovane era incorniciato da un folto casco di lunghi riccioli luminosi e il suo corpo alto e slanciato faceva meravigliare donne e dee. Nonostante la grande prestanza fisica e la sua avvenenza, i suoi amori non furono sempre felici. Artemide, divina sorella e gemella, era l’unica figura femminile costantemente al suo fianco, sia nelle feste sacre, sia nei momenti di maggior pericolo, come la Gigantomachia, il soccorso ai Lapiti attaccati da Centauri, lo sterminio dei Niobidi, l’uccisione di Tizio. La predominanza della fraternità divina pose in secondo piano i suoi poco brillanti amori con donne mortali.

Apollo e Dafne (Bernini)

Marpessa, figlia del re Eveno, gli preferì come marito il mortale Idas, con cui fuggì su un carro fornito da Posidone, per paura di essere abbandonata una volta invecchiata. La Ninfa Dafne, per sfuggire all’inseguimento del dio innamorato, chiese a suo padre, il fiume Peneo, di essere tramutata in alloro (daphne), albero sacro ad Apollo. Coronide, figlia di Flegia, re dei Lapiti, già incinta di Febo, lo tradì con uno straniero. Àrtemide, indispettita dal comportamento della fedifraga, la uccise per vendicare l’offeso amore di Apollo. Si riuscì tuttavia a salvare il figlioletto non nato, Asclepio, il santo medico.

Altri suoi figli furono Doro dalla graziosa Ftia, Coribante dalla Musa Talia, Mileto da Aria, Ione da Creusa e Aristeo dalla Ninfa Cirene.

Innamoratosi di Cassandra, la delicata figlia di Priamo, egli volle donarle l’arte della divinazione, per ingraziarsene i favori. Ma, una volta appresa l’arte della profezia, la fanciulla reale rifiutò di amarlo e Apollo la condannò a non esser mai creduta.

Accanto a tante donne più o meno innamorate, Febo Apollo non disdegnò l’amore per i fanciulli. L’episodio più famoso fu quello di Giacinto, bellissimo principe spartano di cui già era innamorato il cantore Tamiri, primo uomo ad aver avuto rapporti omosessuali. Apollo si liberò del rivale in amore riferendo alle Muse che Tamiri si vantava di eccellere nelle arti musiche più di loro stesse. La punizione divina fu tremenda e immediata, le Muse lo privarono della vista, della voce e della memoria. Ma l’idillio fra i due innamorati ebbe un tragico epilogo, poiché anche il Vento dell’Ovest si era follemente invaghito del bellissimo fanciullo ed era piuttosto geloso di Apollo. Mentre il dio giocava al lancio del disco con Giacinto, il Vento dell’Ovest fermò il disco di pietra e lo indirizzò contro la testa del fanciullo, che ne morì.

Dal sangue dell’innocente vittima nacque un fiore selvatico azzurro, il Giacinto.

Dio della sapienza, della poesia e dell’armonia civile, al suo seguito vi erano sempre le Muse, così come al seguito di Artemide vi erano le Ninfe. A causa di suo figlio Asclepio fu costretto a un duro servaggio sulla terra. Medico divino — così come anche Apollo era dio guaritore — Asclepio era stato educato dal Centauro Chirone alle arti mediche. Come la maggior parte degli esseri semidivini, egli aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza presso il saggio Centauro, sul monte Pelio. Divenuto un buon medico e avvezzo alla bontà verso il prossimo, Asclepio aveva osato resuscitare un uomo morto. Il grave gesto aveva creato subbuglio in Olimpo, per l’oltraggio fatto alle Parche, le dee del Destino, e per la privazione fatta ad Ades di un nuovo suddito. Corrucciato dall’infrazione alle leggi divine e istigato dalle lamentele del Re d’Averno, Zeus dovette colpire il trasgressore, e uccise Asclepio fulminandolo.

La violenta reazione di Febo Apollo si indirizzò sui Ciclopi, che decimò senza pietà. Zeus era furibondo e voleva rinchiuderlo eternamente nel Tartaro, quando la dolce Latona intercedette piangendo per il caro figliolo. La condanna fu mitigata a un anno di lavori forzati al servizio di un mortale. Per espiare l’uccisione dei Ciclopi, Apollo dovette scendere sulla terra e pascolare le greggi di Admeto, re di Tessaglia.

Si narrava anche un altro episodio della schiavitù terrena del dio. Dopo il fallimento della congiura di Era per detronizzare Zeus, Apollo fu costretto a lavorare con Posidone alla costruzione delle mura di Troia. Ma al termine dei lavori, il re Laomedonte si rifiutò di pagar loro il salario convenuto e, anzi li minacciò di mutilarli e di venderli come schiavi. Una volta ripreso il potere divino, Apollo, dio della Morte e del Contagio, inviò a Troia una terribile pestilenza

ROSA AGIZZA

In “Miti e leggende della Grecia” – Newton & Compton Editori

Foto: RETE

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