Aspetto letterario del lamento funebre lucano

 

 

Uno dei ricordi più inquietanti della mia infanzia (anni Cinquanta) è il lamento funebre, in occasione della morte di qualcuno. Quelle scene drammatiche, le urla, i pianti mi procuravano una grande paura. C’era un coinvolgimento emotivo di tutta la comunità. Un cerimoniale tramandato da secoli prescriveva formule, gesti, azioni da seguire dal momento del decesso alla sepoltura.

In questo testo Ernesto de Martino analizza l’aspetto letterario del lamento funebre lucano. Chi ha una certa età ritroverà molte somiglianze con quello che avveniva ad Orsomarso.

https://orsomarsoblues.it/2018/10/il-rito-funebre-nel-tempo-contadino-di-orsomarso/

 

Da un punto di vista strettamente letterario il discorso protetto della lamentazione lucana consta di brevi versetti senza metro né rima, terminanti quasi sempre con un ritornello emotivo (più precisamente vocativo: beni di la sora, attàne mie, frate mie, mamma mea, schianata me ecc.). Questi versetti cantati su una linea melodica tradizionalizzata villaggio per villaggio, sono lavorati con moduli espressivi fissi tradizionalizzati. Una parte di questi moduli ha un carattere tendenzialmente epico, di glorificazione delle res gestae, anche se si tratta di un operare che non va oltre la cerchia ristretta della vita familiare: i moduli cioè rispondono alla prepotente esigenza risolutrice di riappropriarsi di ciò che del morto effettivamente è permanente e non patisce morte, cioè l’opera (nel nostro caso le opere del buon padre o del buon marito o della buona madre o della buona sorella o del buon figlio). I moduli offrono schemi emotivi di «buone opere» compiute, che sono attribuite al defunto anche se la realtà è stata diversa. Così per esempio in molti villaggi lucani ricorre nei lamenti resi da moglie al marito il modulo: «Eri così buono: mi andavi levando le pietre da mezzo la via», alludendo a un atto di gentilezza del marito che durante gli spostamenti faceva salire la donna sull’asinello e andava togliendo le pietre sul percorso, per evitare i sobbalzi: questo modulo è convenzionale, e si applica con scarsissima aderenza alla realtà effettiva delle cose. Senza dubbio in questi modelli convenzionali di opere buone agisce anche una valenza di prestigio sociale: ma il bisogno di riempire il vuoto della morte con la risoluzione epica della vita costituisce l’aspetto fondamentale. In generale i moduli espressivi tradizionali tendono ad esaurire, per quanto possibile, i casi tipici in cui – nell’ambiente economico, sociale e morale dato – la persona può trovarsi quando sia colpita da lutto. Vi sono moduli generici, validi per ogni caso di morte e adatti ad esprimere le reazioni psicologiche più frequenti, e ve ne sono di quelli che si riferiscono a situazioni più particolarizzate, come la morte del marito, del padre o della madre, del fratello o della sorella, del figlio ancor giovine, o della figlia non sposata, e così via.

Questi moduli hanno una diffusione varia, e taluni di essi si ritrovano in più villaggi, anche se separati da una distanza di centinaia di chilometri, tanto che _ se ne valesse la pena – si potrebbe costruire una carta di diffusione di ciascun modulo: tuttavia in uno stesso villaggio e per una stessa comunità i moduli che formano patrimonio della memoria culturale di una lamentatrice sono così numerosi da poter imbastire con essi un lamento lunghissimo nelle circostanze luttuose più diverse. In via di esempio, a Montemurro una figlia lamenterà il padre morto utilizzando i seguenti moduli:

(PD) Tatta mie come voglie fa, tatta mie.

Addò n’è benuta sta morte tua, tatta mie.

Cume n’aie abbandunate, tatta mie.

O amore de le figlie, tatta mie.

Te so passate tutti li dulure, tatta mie.

Che morte all’improvvisa, tatta mie.

Hai lassate li figlie tue, tatta mie.

Nun hai date nisciune scuonze, tatta mie.

E comme amma fa senza di te, tatta mie…

L’ordine di tali moduli potrà mutare nei singoli casi, ma se si chiede di ripetere un lamento di figlia a padre ogni lamentatrice farà ricorso agli stessi moduli, che essa considera ciò che «si dice» o «si deve dire» in una circostanza luttuosa del genere. Tra i moduli generici, adatti a tutte le circostanze, vi è per esempio la sequenza: «M’agghia vutà e m’agghia girà e non t’agghia vedè chiù» (Pisticci, Grottole…).

Durante l’esposizione del cadavere parenti e vicini vengono a rendere visita al defunto: la lamentatrice deve registrare nel suo lamento il mutamento di scena, segnalando il nome di chi entra, rammemorando i rapporti che lo legavano al morto e accennando magari a qualche episodio saliente della passata dimestichezza: e anche ciò avviene in modi stereotipi, che lasciano pochissimo margine alla variazione. A Ferrandina e a Grottole l’ingresso del visitatore viene registrato col modulo di prammatica: «Mo vene…» seguito dal nome della persona (per esempio «compare Nicola») e da qualche particolare correlativo (per esempio «co’ nu mazze de sciure»). La lamentatrice suole registrare con sequenze stereotipe anche altri momenti critici del cerimoniale funerario, come l’ingresso dei becchini o del prete, il suono delle campane, il trasporto della bara fuori casa ecc. Un modulo conclusivo riscontrato a Ferrandina, Pisticci e Grottole consiste nella richiesta al defunto se è contento di quanto «gli è stato fatto», cioè della manifestazione di cordoglio dei parenti e della pompa del funerale. Nel caso della vedova che lamenta la morte del marito è stereotipo il ricordo dei momenti critici passati insieme, di episodi salienti della vita in comune, e di qualche atto di gentilezza reso dal marito alla moglie, come quello di far salire la moglie sull’asinello durante gli spostamenti, e di togliere le pietre dalla via per evitare i sobbalzi: il che si dice – come abbiamo già osservato – anche se la cosa non è vera. Quando la lamentatrice piange la morte di un uomo adulto, marito o padre o fratello, ricorre molto spesso il tema delle mani del morto e della fatica alle quali esse erano adusate: «Quanta fatìa hai fatt’a sse mane» (quanta fatica hai fatto con queste mani), «Sì muorte co’ la fatìa a le mane» (sei morto con la fatica alle mani): ma per la morte della figlia ancora nubile è di prammatica l’antichissima contrapposizione fra le nozze terrene – non ancora consumate – e le nozze con la morte. Nel lamento reso a persone giovani o mature, ma comunque non propriamente vecchie o decrepite, ricorre con frequenza una invocazione amaramente sarcastica: «Oh! il vecchio che eri», intendendo dire il contrario, cioè che era giovane abbastanza per continuare a vivere. Sempre con la stessa figura retorica si dice: «Oh! ce male cristiane» (che malo cristiano), che significa anche qui il contrario, cioè «che uomo dabbene che eri». Molto diffuso (e largamente impiegato dalle madri che lamentano i loro figli morti) è il tema della morte come sonno: la lamentatrice immagina che il morto sia soltanto immerso in un sonno «troppo lungo» ed esorta e scongiura il dormiente a svegliarsi, ad alzarsi, a camminare. Un’altra serie di moduli è in rapporto alla condizione in cui viene a trovarsi la lamentatrice dopo la morte del sostegno della famiglia, marito o figlio che sia. Il regime tradizionale di esistenza assegna alla contadina lucana una gravosa condizione di soggezione, che le fa sperimentare quotidianamente come il suo operare sia fronteggiato, contraddetto, ridotto, smentito e schiacciato da forze incontrollabili. Per quanto non le sia risparmiata la fatica, anche quella più aspra, essa vive in uno stato di continua dipendenza economica, sia da ragazza, nel nucleo familiare dei genitori, sia da sposa quando il marito sarà per lei «o’trave de la casa», il trave maestro della casa. Essa affronta sotto il segno della buona o della mala «sorte» i momenti più delicati del suo destino di donna e di madre, la pubertà, le nozze, la gravidanza, il parto, il puerperio, l’allattamento. E proprio in rapporto a questa condizione di dipendenza, l’evento luttuoso che la colpisce, soprattutto se si tratta del marito, risolleva di colpo, nella sua imponente carica emozionale, tutto l’arco di una vicenda esistenziale deficitaria.

Di qui alcuni moduli ricorrenti nella lamentazione: la vecchia madre perde il suo «bastone» e la sua «speranza», la vedova vede schiantato «il trave maestro della casa» e si sente abbandonata «in mezzo a una strada» con «un fascio di figli in boccio». Il destino degli orfani senza la protezione paterna si configura alla vedova come una vicenda di patimenti e di umiliazioni a cui essi da ora in poi saranno esposti: «chi darà loro uno schiaffo e chi un manrovescio» dice un modulo di Grottole. Il pensiero che ora toccherà alla vedova lavorare per sfamare gli orfani ancora piccoli si esprime a Pisticci con il modulo: «m’agghie affritecà la stuane» (mi debbo rimboccare il grembiale, alludendo all’abitudine di rimboccarsi il grembiale sul davanti a mo’ di grossa tasca allorché la donna va al lavoro dei campi). La vita «pane senza pane», cioè trascorsa col suo uomo nel rosario dei giorni che portarono il pane e di quelli che non lo portarono, sta ora davanti alla vedova, in atto di prolungarsi in un nuovo rosario di giorni ancora più amari, dominati dall’incertezza. Alcuni frammenti di un lamento di moglie a marito, raccolto a Grottole, possono offrire un buon esempio di questa tessitura di stereotipie verbali:

(RD) O frate mie, o frate mie buone e belle, quante te pense, a ogna a ogna.

Frate mie, penze comme me lasse mienze na via co tre file.

Ci l’adda fa iranne a chisse, frate mie?

Quanne me n’haie fatte passa pe’ l’amore de l’olde, frate mie!

Mò so rimaste cuntente: se pigghiassero na cianca e se la mangiassero.

Frate mie, vuie esse pensate quanta fatìa haie fatte chi sti mane:

Si muorte cu la fatìa a li mane.

Dò t’agghia venì a cchià?

(Entra nella stanza compare Giovanni e altri compari e comari che vengono a render visita di condoglianza)

Mò vène cumpà Giuannine: nun t’adda venì chiù a chiamà a li tre pe scì a la macchia.

Mò vénene tutte, cummare e cumpare, senza ‘nvetate, frate mie.

Lu cumplimente come l’agghia dà, ca non ce n’è?

Speriamo a Gesù Cristo cussu duvere ca te vénene a ffa cummare e curapare li vogghie renne di buone.

E ci è muorte, frate mie? E muorte Nicola.

(Entra il prete: la lamentatrice si strappa i capelli e li getta nella bara)

Frate mie, non t’agghia che te dice e che te dà, tine li capidde mie pe’ ricurde.

(Prima della chiusura della bara i figli baciano il morto)

Frate mie, l’ultime vase ca te donne li fili toie:

và pria a Die pì lore, non te scurdà mai de li fili toie e de la sera toia.

Famm’aprì n’olda porta pe’ falle iranne.

Chidde file anna scì sotto a li dispetti de l’olde:

ci n’ave da nu scaffe e ci nu muffettone.

(Entra zio Menico che accompagnò il defunto all’ospedale di Matera quando vi fu trasportato per essere sottoposto all’operazione letale)

Frate mie, mò vene zì Meniche:

 quanne te purtò o’ spedale come te vedisti frate mie, sule sule senza la sora toia?

Ci t’ha viste e ci t’ha date na stizza d’acqua almeno quanne stave sotto a chidde curtedde, sopa a chedda baredda, e t’adoperavano?

(La bara è presa a spalle dai becchini. La lamentatrice prorompe in un gridato altissimo:)

Frate mie, frate mie, pindiddi li pide a la porta e nun te ne scì, frate mie.

 

(O marito mio, o marito mio buono e bello, quanto ti penso, a unghia a unghia. Marito mio, guarda come mi lasci in mezzo a una via con tre figli. Chi li deve far grandi questi figli, marito mio? Quante me ne hai fatte passare per amore degli altri, marito mio! Adesso son rimasti contenti: si prendessero una coscia e se la mangiassero. Marito mio, vuoi essere ricordato per quanta fatica hai fatto con queste mani: sei morto con la fatica alle mani. Dove dovrò venirti a cercare? Ecco che viene compare Giovanni: non ti verrà più a chiamare alle tre del mattino per andare in campagna. Ecco che vengono tutti, comari e compari, senz’essere invitati, marito mio. Come offrire qualche cosa agli invitati, che non c’è nulla? Speriamo in Gesù Cristo che questo dovere che ti vengono a rendere comari e compari io lo possa rendere in bene. E chi è morto, marito mio? È morto Nicola. Marito mio, non ho che dirti e che farti: prenditi i capelli miei per ricordo. Marito mio, l’ultimo bacio che ti danno i figli tuoi: prega Dio per loro, non ti dimenticare mai dei tuoi figli e della tua donna. Fammi aprire un’altra porta [fammi trovare un’altra strada] per farli grandi. Questi figli debbono andar sotto i dispetti degli altri, chi darà loro uno schiaffo e chi un manrovescio. Ecco che viene zio Menico: quando ti portò all’ospedale come ti vedesti, marito mio, solo solo senza la tua donna? Chi s’è preso cura di te e chi t’ha dato una goccia d’acqua quando stavi sotto a quel coltello, sopra a quella barella, e t’operavano? Marito mio, marito mio, punta i piedi contro la porta e non te ne andare, marito mio).

Il testo letterario è qui interamente lavorato con moduli che sono tradizionali nel lamento di una vedova: infatti moduli ricorrenti sono, per esempio, «O marito mio, o marito mio buono e bello, come ti penso a unghia ad unghia»; «Marito mio, come mi lasci in mezzo alla via con tre figli»; «Fammi aprire un’altra porta per farli grandi»; «Questi figli debbono patire i dispetti degli altri, e chi deve dar loro uno schiaffo e chi un manrovescio»; «Sei morto con la fatica alle mani» ecc.

Analogamente è tradizionale sottolineare l’ingresso di un visitatore con il modulo «Ora entra il tal dei tali», o rivolgere la domanda retorica «Chi è morto?» seguita dal nome del defunto. Per i morti lontani da casa, senza l’assistenza dei loro cari (per esempio all’ospedale o in guerra) è modulo fisso chiedersi chi avrà dato loro una goccia d’acqua per lenire la sete, mentre la scongiurante richiesta di «puntare i piedi alla porta» per non andarsene è ricorrente al momento in cui la bara è portata via.

Ma la lamentazione è tradizionale non soltanto perché i suoi versetti sono lavorati secondo modelli stereotipi attinti alla memoria culturale della lamentatrice, ma anche perché vi è una mimica d’obbligo nell’esecuzione, una gesticolazione «prescritta». Quando si deve eseguire il lamento bisogna sciogliersi le chiome: le chiome sciolte fanno parte del «modello» della lamentatrice in azione, e il modello va rispettato con fedeltà rituale. Durante l’esecuzione il lamento è accompagnato a un determinato movimento ritmico del busto a destra e a sinistra, come per una ninna-nanna, o avanti e indietro, con appropriati gesti delle mani, secondo il modello di un discorso particolarmente vibrante e impegnato. Questi moduli mimici sono i più diffusi nell’area che è stata esplorata: ma in determinati villaggi, o in rapporto a determinate forme di lamentazione, altri moduli sono stati tradizionalizzati, e valgono come modello da rispettare.

 

ERNESTO DE MARTINO

In “Morte e pianto rituale nel mondo antico” – Bollati Boringhieri

FOTO: Rete

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close