
PARCO DEL POLLINO – Serra di Crispo
Nelle concezioni arcaiche o tradizionali, secondo le modalità di ciò che Claude Lévi-Strauss chiama giustamente, e per noi talmente a proposito, «il pensiero selvaggio», dato che selvaggio viene da silva, «foresta», gli alberi sono abitati e hanno un’« anima ». Tale credenza, ormai sopravvissuta solo sotto forma di vaghe tracce in un folclore in via di rapida scomparsa, ci sembra rientrare nelle superstizioni del passato. Ma uno scetticismo così netto non sarà a sua volta tra qualche tempo superato?
Gli esperimenti intrapresi a partire dal 1900 e condotti per una trentina d’anni da un eminente ricercatore indiano [Jagadis Chandra Bose], autore di importanti lavori di fisiologia vegetale, le cui conclusioni entusiasmarono G. B. Shaw e Henri Bergson, hanno infatti dimostrato l’esistenza nelle piante di una sensibilità accompagnata perfino da una certa capacità di memorizzazione, il che assomiglia a una forma molto elementare di psichismo e indusse quel fisiologo a postulare l’esistenza dell’equivalente di un «meccanismo nervoso» nei vegetali.
Successivamente, gli esperimenti di Jagadis Chandra Bose sono stati confermati e completati da scienziati americani e soprattutto sovietici. Naturalmente, è ancora troppo presto per accettare come dimostrate in modo definitivo scoperte così rivoluzionarie, ma in fondo questa ipotesi è inaccettabile solo nel caso in cui si concepiscano come radicalmente separati i sacrosanti «regni» della natura, mentre già da un pezzo la paleobiologia dimostra e insegna che gli animali procedono dalle piante, i primi organismi vissuti sulla terra e in precedenza nel mare, e che le cellule animali non sono altro che cellule vegetali trasformate.
Ogni cellula, qualunque essa sia, gode di un certo grado di autonomia, ha un proprio sistema regolatore di equilibrio e di difesa e quindi possiede in potenza il principio della vita psichica. Che le piante siano dotate di una sensibilità reattiva, in grado di inserirsi in loro sotto forma di ricordi, che possano presentare manifestazioni di benessere o, come ripetuti esperimenti hanno dimostrato, di paura e perciò di memorizzazione non è forse quanto esprimeva, nel suo modo allegorico, il «pensiero selvaggio»?
Che gli alberi, in particolare, siano dotati di una certa forma di memoria è un fatto reso tangibile dai «cerchi», gli strati concentrici di accrescimento che consentono, quando l’albero è abbattuto, di conoscerne non soltanto l’età, ma le reazioni differenziate alle condizioni climatiche, che sono così registrate in lui e da lui, anno per anno.
Sia come sia, la mentalità tradizionale attribuiva agli alberi, come a tutti gli esseri viventi, un’«anima» che poteva manifestarsi in certe occasioni. Tutti gli alberi ne avevano una, alcuni in grado superlativo; erano questi alberi sacri, nel senso che erano abitati non, come gli altri, da esseri anonimi ma da una divinità nota che li aveva eletti a sua dimora, e di conseguenza erano oggetto di un culto.
Come si potevano distinguere, nella folla degli altri, questi alberi, estremamente rari? Le varie tradizioni riferiscono che ciò avveniva sempre in conseguenza di una rivelazione, un sogno o un’apparizione, un’improvvisa guarigione al loro contatto o una manifestazione oracolare ma che anche certi indizi, una statura eccezionale o qualche peculiarità morfologica loro propria, li avevano additati all’attenzione degli uomini. Tali indizi venivano interpretati come segno di elezione da parte di un dio facilmente riconoscibile, anche se non rivelava la propria identità, perché le varie specie erano attribuite ognuna a una divinità e, in un certo senso, suddivise tra loro. Poi l’albero veniva isolato, protetto da severi divieti, a volte circondato da una recinzione, mentre ai suoi piedi veniva innalzato un rustico altare destinato a ricevere le offerte.
È opportuno ricordare che questo culto rustico si è tramandato in India identico fino a oggi. Così l’albero poteva arrivare al pieno sviluppo e raggiungere un’età molto avanzata. Probabilmente, è intorno a questo albero designato da mezzi sovrannaturali che si lasciava crescere il bosco sacro.
Jacques Brosse
In “MITOLOGIA DEGLI ALBERI” – BUR