LE CALZATURE nell’antica Grecia

«Piedi incrociali con krepídes», II sec. a.C. – .

 

Nelle calzature in età ellenistica vale lo stesso principio che si è affermato per il vestiario e per le acconciature, cioè che non è vero che il vestire femminile ellenico fosse uniforme, costante, sottratto alla moda e ai suoi capricci. Certo anche in età elladica e classica la fantasia degli artigiani, il gusto personale del cliente e la varietà di materiali a disposizione rendeva possibile una larga rosa di soluzioni del problema di proteggere e ingentilire il piede.

Il principio originario era quello di difendere la pianta dei piedi dai ciottoli, dal fango, dal sudiciume e dagli insetti: e quindi tagliare un pezzo di cuoio nella forma plantare, assicurandolo al piede con strisce dello stesso materiale, fu la soluzione più semplice e quasi intuitiva. Su questo elementare espediente fu facile differenziarsi e raffinarsi, modificando il numero delle cinghie, il loro punto di attacco alla suola, il loro intreccio, la qualità del pellame o del tessuto usato, verniciandole, tingendole, rivestendole o anche ricoprendole di lamine d’oro o d’argento; invece sandali assai più rozzi o casalinghi potevano anche avere suole di fibre tessili (sparto) o di legno.

Se le cinghie facevano un intreccio più protettivo, in modo da avvolgere tutto il piede e il calcagno lasciando qualche interstizio per far respirare l’epidermide, quando venivano totalmente sostituite da una tomaia, con qualche parziale apertura per il dorso del piede, si aveva la krepis, scarpa più adatta per uomo. Facendole di pelle morbida, colorate per lo più in giallo, e magari con alte suole di sughero per guadagnare qualche centimetro di statura, erano usabili anche dalle donne in viaggio, con tempo cattivo o per camminare a lungo in condizioni difficili.

Sul motivo del sandalo e della krepis erano possibili molte variazioni a seconda che la scarpa venisse annodata davanti o dietro o fermata con fibula. Le embades erano scarpe con tomaia totalmente chiusa, per uomo o per donna, che poteva salire verso il polpaccio a stivaletto; le donne raffinate potevano anche applicarvi ricami in fili d’oro. Lendromis invece era una scarpa sportiva, alta sino a mezza gamba, in cuoio, che sorreggeva la caviglia e il polpaccio; proteggeva in marcia dagli sterpi e dalle vipere e veniva usata solo dagli uomini.

In età elladica e classica si andava sempre scalzi finché si rimaneva in casa; nell’Atene classica chi «laconizzava», imitando il costume spartano, non portava calzature neppure fuori. Il coturno, in base a fonti tardive (Luciano) era ritenuto una scarpa usata solo dagli attori tragici, con una spessa suola che alzava la persona. In realtà in età greca classica si trattava di una specie di scarpa larga, comoda e non tagliata sulla forma del piede, tanto che il paio non aveva destra o sinistra, e che veniva usata per disimpegno dai due sessi.

Gli attori comici usavano le embades comuni; quelli tragici, i quali dovevano elevare la persona per acquisire caratteristiche eroiche, usavano embataì.

Per i giorni freddi, più che delle calze esistevano delle specie di «pedule» di stoffa, lunghe sino al polpaccio, tagliate e cucite sulla forma del piede, o delle fasce di lana che uomini e donne usavano sotto l’endromis, isolando in questo modo l’epidermide dal cuoio.

Calzolaio

La pelle per le calzature veniva trattata con procedimenti molto primitivi di concia e tintura. Le pelli venivano sottoposte a battitura, depilazione e poi sottoposte a bagni di urina, o di sterco di colombo oppure con infusioni di foglie ricche di acido tannico. Le pelli venivano anche distese, raschiate, assottigliate e spianate. Per rendere morbida la pelle si usavano trattamenti di olio o di grasso di maiale. Fra i vegetali usati per trame acido tannico per la concia, venivano elencati la corteccia di alcune conifere, la scorza delle melagrane, le ghiande, radici e bacche di vite selvatica, i frutti dell’acacia egiziana e alcune altre piante.

La scelta di questi prodotti non era completamente casuale poiché alcuni reagenti servivano per la semplice concia, altri per conciare e colorare contemporaneamente, altri ancora per restringere e rassodare la pelle. Anche la corteccia di quercia era raccomandata per una concia che fosse nello stesso tempo astringente e rassodante, mentre altri reagenti servivano per sbiancare la pelle.

Per lo più gli stessi coloranti che venivano usati per i tessuti erano usati anche per le pelli: fra gli altri, terre rosse, cortecce vegetali o neri di origine metallica o minerale. I centri da cui provenivano le pelli lavorate in Grecia erano le regioni del mar Nero, la Cirenaica e più tardi la Sicilia e l’Asia Minore.

Molto sovente la concia veniva fatta dagli stessi calzolai che fabbricavano le scarpe. II mestiere del conciatore era largamente remunerativo, anche se, a causa delle sgradevoli esalazioni, godeva di una scarsa reputazione. Il più celebre conciatore della storia greca fu Cleneto, il padre di Cleono, il quale faceva contemporaneamente il conciatore e il fabbricante di scarpe.

Poiché con il cuoio si facevano anche gli scudi, è noto che Lisia possedeva una fabbrica al Pireo in cui si facevano scudi di 60 cm di diametro, nella quale erano impiegati 120 schiavi. In nessuno scavo greco sono state trovate tracce di impianti di conceria. Inoltre non si ha notizia di un uso normale di guanti se non per riparare la mano in alcuni lavori particolari: i guanti erano usati da popolazioni barbariche viventi in climi particolarmente freddi. In certe tombe sono stati rinvenuti, in periodo elladico e arcaico, guanti di lamina d’oro, certamente usati per cerimonia.

 

In “LA STORIA 2” – La Biblioteca di Repubblica.

Foto: RETE

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