Le religioni nella Cina moderna

 

Le varie costituzioni, che si sono succedute dopo il 1949, hanno sempre trattato il problema delle religioni. Quella del 1954, pur basandosi sul modello sovietico, prevedeva nell’articolo 88 la «libertà di credenza religiosa», senza però contemplare, come quella sovietica del 1936, anche la «libertà di propaganda antireligiosa». La Costituzione del 1979 si dilunga maggiormente sull’argomento in questione quando, nell’articolo 36, viene affermato che «nessuna organizzazione statale, pubblica o individuale, può obbligare i cittadini a credere o a non credere nella religione, né può discriminare fra i cittadini chi crede e chi non crede in una religione. Lo stato protegge le normali attività religiose, ma nessuno può usare la religione in attività contrarie all’ordine pubblico. Gli enti religiosi e gli affari religiosi non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».

Cosa era successo in Cina fra l’avvento del nuovo regime (1949) e quest’ultima Costituzione (1979)?

II trionfo della prima politica di Mao, il succedersi di varie campagne ideologiche, la rivoluzione culturale, la scomparsa del fondatore della Repubblica Popolare, l’eliminazione del gruppo radicale e l’avvio della campagna di modernizzazione del paese in campo soprattutto economico.

Nel suo saggio Sulle contraddizioni in seno al popolo Mao aveva scritto che «non possiamo abolire la religione per mezzo di ordini amministrativi, né possiamo forzare la gente a non credere in essa», per poi proseguire dicendo che «per sistemare divergenze di natura ideologica ed altre questioni controverse tra il popolo, non possiamo che impiegare metodi democratici, metodi di discussione, di critica, di persuasione e di educazione, non metodi di imposizione e di coercizione». Era un ragionamento teorico abbastanza realista, anche se l’applicazione pratica fu, in realtà, alquanto diversa.

Misure severe furono prese, già prima del 1979, contro la minoranza cattolica cinese, giustificando il fatto – come prevedere la Costituzione ultima – con la dipendenza di essa dall’estero, cioè dal Vaticano; anche le comunità protestanti, che sino agli anni Cinquanta avevano goduto di una relativa libertà, furono avversate per i loro legami con le chiese d’Inghilterra o degli Stati Uniti. Diverso il caso di altre confessioni religiose, anche se di origine straniera, quali il buddhismo e l’islam.

A differenza della chiesa cattolica, i buddhisti e i musulmani non dipendevano da una gerarchia centralizzata ed erano largamente rappresentati in molte altre nazioni asiatiche ed africane. Motivi di tolleranza religiosa erano, pertanto, ispirati anche da ragioni di politica estera e di buone relazioni con altri paesi.

Nel 1953 si era costituita a Pechino un’Associazione Buddhista Cinese, alla cui presidenza furono chiamati il Daiai Lama ed il Tashilama; il Tibet, a partire dal 1951, era entrato a far parte del nuovo sistema politico-amministrativo della Repubblica Popolare Cinese; la Cina aveva interesse ad avere rapporti di buon vicinato con quelle nazioni asiatiche in cui il buddhismo era ancora fiorente.

Sempre nel 1953 si costituiva un’Associazione Islamica Cinese, i cui fini principali erano di organizzare pellegrinaggi di musulmani cinesi alla Mecca e di promuovere una maggiore collaborazione tra i cittadini cinesi di fede islamica e quelli di altri paesi afro-asiatici. I musulmani cinesi, oltre a quelli di nazionalità Han (cinese) appartengono a ben undici differenti minoranze etniche (Hui, Uighur, Kazakh, Kirghiz, Khalkha, Tafjik, Tatar, Uzbek, Tunghsiang, Sala e Paoan) residenti prevalentemente nella regione autonoma del Xinjang, confinante con la Russia e con l’Afghanistan, regione che, in tempi non lontani, si era rivoltata contro il potere centrale.

Tre anni dopo, nel 1956, sorgeva l’Associazione Taoista Cinese con lo scopo di «collaborare con il governo nella sua politica di libertà religiosa e di promuovere i buoni insegnamenti del taoismo». Il ritardo fu probabilmente dovuto al fatto che il taoismo – unica religione autoctona – era stato, nei secoli precedenti, l’ispiratore di rivolte sanguinose e, di conseguenza, era guardato sempre con cautela e sospetto. Non è un caso se uno dei massimi scrittori cinesi moderni, Lu Xun (1881-1936), in un suo breve saggio ha scritto: «La gente, spesso, odia i monaci buddhisti, odia le monache buddhiste, odia i musulmani, odia i cristiani; ma non odia i taoisti. Chi capisce la ragione di ciò, ha capito gran parte della Cina».

Con l’inizio della rivoluzione culturale (1966) che per un decennio avrebbe sconvolto ogni aspetto della vita sociale in Cina, l’attività di qualsiasi fede religiosa si ridusse notevolmente, sino ad azzerarsi. Molti monasteri e molte chiese furono chiusi; la maggior parte dei templi lamaisti in Tibet fu rasa al suolo; i religiosi di qualsiasi religione furono perseguitati, alla pari degli intellettuali, dei burocrati, di molte personalità dello stesso partito comunista cinese. Si assistette, però, in quegli anni ad alcuni fenomeni che non possono che essere definiti come parareligiosi. Il culto della personalità del presidente Mao, l’uso diffuso e quotidiano di aver sempre in mano il cosiddetto libretto rosso delle citazioni di Mao, provocarono fenomeni di suggestione collettiva e la credenza che questo modo di agire potesse generare anche qualche miracolo. La pratica dell’autocritica davanti alle masse nelle università e nelle fabbriche cinesi, poi, pareva ricordare la pubblica confessione dei peccati, praticata nei secoli passati nelle comunità buddhiste e taoiste.

Terminato il decennio della rivoluzione culturale si sono ricostituite alcune organizzazioni religiose; tutte si autodefiniscono patriottiche. Sono l’Associazione Bud dhista Cinese, l’Associazione Taoista Cinese, l’Associazione Islamica Cinese, l’Associazione Cattolica Patriottica Cinese, la Commissione amministrativa della chiesa cattolica cinese, la Conferenza dei Vescovi cattolici cinesi, l’Associazione Protestante Cinese e, infine, il Movimento patriottico protestante cinese delle Tre autonomie (autogoverno, autosupporto, autodiffusione).

E difficile stabilire quale sia il numero dei cinesi che, agli inizi del XXI secolo, praticano diverse forme religiose e come essi possano suddividersi nelle varie chiese. Chiunque, nell’ultimo decennio, abbia avuto modo di recarsi in Cina ha assistito ad un rifiorire del sentimento religioso; non sono più soltanto poche persone a seguire culti e riti di fedi diverse, ma sempre più numerose e di età varia, dai giovanissimi agli anziani. Sempre crescente è oggi nella Cina popolare l’interesse per la storia delle religioni.

Se da un lato le comunità religiose hanno ripreso a ristampare le proprie raccolte di testi dottrinali, dall’altro studiosi laici si occupano del problema. L’Accademia di Scienze Sociali di Pechino, alcune università e, fra gli altri, l’Istituto per le ricerche sulle religioni mondiali di Pechino, hanno dato l’avvio a grandi intraprese editoriali. Lo studio delle religioni non è più avversato oggi in Cina, così come non lo è più la pratica.

LIONELLO LANCIOTTI

In “Storia delle Religioni” – La Biblioteca di Repubblica

Foto: RETE

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