Del canto popolare, del popolo e della gente

 

[I canti popolari raccontano] il percorso di un ideale ciclo della vita dell’uomo. Si comincia con ninne nanne e filastrocche infantili e si chiude con testimonianze di canti rituali funebri. Fra i due termini trovano collocazione testi relativi ai canti di lavoro e sul lavoro, l’emigrazione, la condizione operaia, le feste religiose e quelle laiche, i balli, le veglie, l’osteria, l’amore e il matrimonio, il carcere, il servizio militare, la guerra, la lotta e l’organizzazione politica, le piccole e grandi «storie».

[…] Canti popolari italiani. Non «popular songs», che sarebbero poi le canzoni in voga, quelle che piacciono alla gente, che fanno vendere molti dischi, ospiti fisse di tante radio private e di Videomusic. Qui per «popolari» s’intende «folk songs», canti di varia epoca e provenienza, accomunati dal fatto che le classi subalterne italiane li hanno assunti: creati, o ricreati, presi in prestito, stravolti, rivitalizzati: utilizzati insomma. Stornelli e «passioni», «maggi» e strofette, che nel loro insieme sono o sono stati espressione di una cultura, hanno o hanno avuto una funzione: di conoscenza della realtà e di comunicazione di esigenze primarie: gioia, rabbia, amore, bisogno di mistero, volontà di lotta.

Chi non li conosce ancora, se deciderà di andarseli a cercare, ascoltarli, impararli, studiarli – o magari ricrearli – scoprirà una dimensione affascinante. Questi canti sono «belli»: musiche ora tenere, ora violente, suggestive sempre; i testi, spesso molto significativi, non di rado attingono a una loro «poesia» (e «poesia popolare» era la definizione d’uso di questi prodotti, anche in ambiente accademico, fino a non più di una quarantina d’anni fa): una poesia che romantici e postromantici esaltavano fuor di misura, vedendovi il frutto di una pura, primordiale, spontanea creatività popolare. Sull’ingenuità e la spontaneità insistevano comunque un pò ‘ tutti, dai positivisti ai comunisti ortodossi, passando per gli idealisti crociani.

Accomunati tutti, sembrerebbe, dall’irritazione, lo sdegno, il livore con cui quello stesso popolo veniva considerato, nel momento in cui il mondo contadino mostrava, anche coi suoi canti, di voler sfuggire allo stereotipo della gioiosa e genuina comunione con la natura, della paziente e mitica rassegnazione alla subalternità e alle angherie. L’Italia «magna parens frugum», oh sì. E anche «Abruzzo forte e gentile». E magari lo pseudoevangelico «Beati i poveri».

Ma guai se qualcuno si azzarda a rivendicare dignità di cultura ai modi di vita, i valori, gli strumenti di comunicazione, le espressioni artistiche dei ceti subalterni impegnati nella lotta di classe. Tutti d’accordo, allora, a distribuire bacchettate: da Giosuè Carducci ad Anatoli Lunatcharski, da Benedetto Croce ad Achille Occhetto.

Il salto di qualità si verifica all’altezza dei primi anni Cinquanta, sulla base di uno studio attento dei Quaderni di Granisci, ma soprattutto per merito delle ricerche e dei contributi critici di Ernesto De Martino, Alberto M. Cirese, Diego Carpitella e pochi altri. Contributi, peraltro, non solo privi di interlocutori di massa, ma destinati a rimanere ai margini della cultura ufficiale e privi di spazio adeguato anche nelle riviste culturali della sinistra, egemonizzata allora dai guasti e le arroganze dello stalinismo.

[…]Nel frattempo decine di migliaia di esecuzioni originali di enorme interesse arricchivano – grazie ali ‘opera disinteressata di centinaia di ricercatori – gli archivi della Discoteca di Stato e di altri enti pubblici, rimanendo peraltro riservate ali ‘utilizzazione di pochi addetti ai lavori.

L’unica eccezione era costituita da qualche rubrìca radiofonica («Chiara fontana», «Aria di casa nostra»), che proponeva incisioni originali anche molto interessanti, ma al di fuori di ogni discorso anche parzialmente critico o unitario, in un ordine del tutto casuale, come a voler sottolineare l’aspetto arcaico, frammentario e privo di spessore storico, dei materiali musicali presentati. Ricerche specifiche sul canto politico di tradizione contadina e operaia non esistevano, a parte gli spunti forniti nel 1951 da un articolo di Ernesto De Martino; persino gli inni proletari di lotta (da «Bandiera rossa» a «L’Internazionale», ai canti più noti della Resistenza) erano sempre meno utilizzati; la classe operaia pagava, in termini politici, economici e culturali, il prezzo imposto dalla borghesia riorganizzata.

Parlare di autonomia culturale delle classi subalterne, battersi per una storiografia dal punto di vista della classe, rivalutare in questo senso le fonti orali e le monografie storiche relative alle prime organizzazioni operaie, alle lotte contadine dell’Ottocento, appariva fuorviante e dilettantesco, agli occhi non solo della cultura accademica ma anche di molti intellettuali detta sinistra: significativo è rimasto il modo in cui, sotto l’accusa di corporativismo e di filologismo, Gianni Bosio fu estromesso nel 1955 dalla redazione della rivista Movimento operaio, da lui fondata e diretta.

È soltanto sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, mentre l’Italia si avvia al «miracolo» neocapitalistico, che una serie di iniziative mostra una significativa inversione di tendenza; esse precedono, accompagnano, seguono una nuova fase di attacco dell’iniziativa operaia in fabbrica, forniscono un sia pur rudimentale quadro di riferimento culturale per il rinascere di manifestazioni di autonomia operaia sul terreno economico e politico. Non è questa la sede per un’analisi di questi fenomeni; sembra però doveroso ricordare l’apporto di Ramerò Panieri e dei Quaderni rossi di Danilo Montaldi e delle sue ricerche sul campo, di Stefano Merli ecc. Per quanto riguarda il canto popolare e la nuova canzone politica, due momenti organizzati si impongono all’attenzione: i Cantacronache a Torino e le Edizioni Avanti! a Milano

[…] II Nuovo Canzoniere Italiano nasce dall’incontro fra le due realtà appena descritte. La storia del collettivo è travagliata, conosce anche incomprensioni e scissioni, ma l’importanza dei dibattiti, delle iniziative, delle intuizioni di questo gruppo di militanti non può in alcun modo essere messa in dubbio. […]

La situazione poteva, dunque, apparire, alla metà degli anni Settanta, ribaltata rispetto al ventennio precedente. «Gruppi di base nascono e si sviluppano, la ricerca ha fatto passi decisivi, il dibattito teorico dilaga a livelli di massa, le iniziative discografiche e editoriali si moltiplicano, canali di comunicazione nuovi, all’interno e all’esterno dell’industria culturale, si aprono. Con questa nuova realtà devono fare i conti le organizzazioni vecchie e nuove della sinistra; e persino gli intellettuali borghesi e i mass-media da qualche tempo vengono scoprendo l’importanza della cultura popolare e si applicano a raccogliere, selezionare e riproporre i canti popolari, estraniandoli ovviamente dal loro contesto culturale, nel tentativo di togliere loro ogni elemento alternativo, di opposizione alla cultura dominante, di farne insomma strumenti di perpetuazione dell’egemonia di classe.»

Certo, non per merito esclusivo del Nuovo Canzoniere Italiano: impossibile non segnalare, ad esempio, gli studiosi raccolti intorno a Roberto Leydi, specie per la compagna di ricerca e verifica critica finanziata dalla Regione Lombardia (fra gli altri, Bruno Pianta e Glauco Sanga). Ma anche gli apporti di tanti «accademici», autori di contributi a volte realmente preziosissimi: si pensi, fra i tanti, ad Annabella Rossi, Giara Gattini, Pietro Sassu, Pietro Clemente, Alfonso Di Noia, Antonino Uccello, Vittorio Lanternari, Luigi M. Lombardi Satriani. E ancora, fuori dalle università, l’attività non meno preziosa di Danilo Montaldi, Nuto Revellì, Amerigo Vigliermo, Giorgio Vezzani, Roberto De Simone.

E poi c’è Canzonissima. Già. Il varietà televisivo più «popolare» dell’anno (ah, l’ambiguità di certi termini!) apre nel 1974 un girone folk, invitando alla gara canora anche alcuni degli esecutori più qualificati del canto popolare italiano. Col popolo italiano invitato ad esprimere (sulle cartoline della lotteria) la preferenza per il canto toscano del Canzoniere Internazionale o quello sardo di Maria Carta.

E gli intellettuali di sinistra tutti lì a discettare sul tentativo della borghesia di appropriarsi i canti delle classi subalterne, svirilizzandoli, decontestualizzandoli, riducendoli a canzonette. «Credo che oggi la musica e la cultura popolare vadano salvate – scriveva Giaime Pintor -prima di tutto contro i loro estimatori, contro coloro che tentano di seppellirle fingendo di lodarle.»

[…] Oggi, il problema di difendere la cultura popolare dall’abbraccio soffocante della borghesia e dei mass-media non sussiste più. Per il semplice motivo che alla borghesia, ai mass-media e alla stragrande maggioranza del popolo italiano, della cultura popolare non interessa niente affatto. Le collane discografiche sono sparite, i libri escono col contagocce, persino le feste dell’Unità fanno a meno volentieri dei folksingers nostrani, nonché di quei rompiscatole che -fuori dal mercato discografico ufficiale – si ostinano a innestare, sulle radici del folk, la loro attività di autori/esecutori di nuova canzone politica.

In un contributo lucido e generoso, e recentissimo, Ivan Della Mea rievoca le gratificazioni del passato: «Cantavo per la classe (per dio), e per le masse (per la madonna), per il comunismo (per tutti i santi in colonna) … Finita la fase rivoluzionaria, un po’ romantica, eppure tosta nelle parole d’ordine… ci fu la stagione consolatoria: si consolava e ci si consolava delle sfortune sinistre e ci pareva, a me in primis, sbagliato, riduttivo: errore, oggi so quanto sia importante e umano e “politico” e “sociale” consolare e consolarsi facendo Storia della memoria: è un po’ come l’annusarsi affettuoso di cani bastardi, bisognosi di riconoscersi per ritrovarsi». «Filologicamente / sono molti gli arcani» – borbottava già qualche anno fa, dal canto suo, Paolo Pietrangeli: «eravamo marxisti, / ci sentiamo marziani». Che diavolo è successo in Italia, vien da chiedersi, alla fine degli anni Settanta?

Quel che è accaduto, nelle sue grandi linee, è abbastanza risaputo: è finito un ciclo della lotta di classe, sotto la spinta di grandi trasformazioni economiche e organizzative, determinate da lucide decisioni della borghesia nostrana non meno che dai condizionamenti internazionali. La rivoluzione l’hanno fatta i padroni, insomma. Anche perché la sinistra aveva il suo bel da fare, a casa propria: le spinte alla ribellione e alla violenza, con sbocchi nell’illegalità diffusa e nel terrorismo, non potevano certo esser controllate e assorbite da un PCI tutto anchilosato nella strategia del compromesso storico. Amen, è andata così. […]

Del resto, i cicli di lotta si aprono, si estendono, a volte degenerano, si chiudono. Quasi sempre inopinatamente, almeno a quanto si può valutare sul momento. Poi, alla distanza, a bocce ferme (ma sì fermano mai davvero, le bocce, a questo gioco?), qualche spiegazione si trova sempre: ma nell’immediato, quando le cose prendono una piega che i commentatori, i politologi, gli esperti non avevano minimamente previsto, si resta come tanti baccalà. […]

Comunque sia, inesorabilmente, a fine anni Settanta tutto sembra svanire nel nulla. Il movimento di massa nato intorno alla cultura popolare impallidisce, si dissolve: niente più pubblico, né libri, né dischi, né convegni, né spettacoli, né dibattiti. Con le dovute eccezioni, s’intende. Ma isolotti nell’oceano. Nell’insieme, quel «popolo» di operai in lotta, autoriduttori, occupatori di case, scuole, officine e università, cassintegrati, disoccupati, proletari giovanili ecc. ecc., comincia a trasformarsi in «gente» sempre più indifferenziata. […]

Certo, un’obiezione di buon senso […] esiste e come: perché definire «popolari» canti che il popolo, oggi, non conosce e non usa ?

Ricordo un fumetto di Schulz di qualche anno fa, con Linus che dice, più o meno: «Io amo il popolo: è la gente che non sopporto». […]

Sarà, da parte mia, falsa coscienza; ma credo ci sia davvero, al di là delle definizioni dei vocabolari, una distinzione fondamentale fra «gente» e «popolo». Quando vedi certi poveretti, abbrutiti dal benessere e dal consumismo, apparentemente incapaci di usare la propria ragion critica, abbagliati dai modelli del successo e dei quattrini, lì a trascorrere le serate davanti al televisore e i weekend in autostrada, non ti viene da dire: «Che popolo!». Dici: «Che gente!». E «Povera gente!», ti viene alle labbra di fronte a vittime sventurate, terremotati, alluvionati. Forse è così: è «gente», povera o no, quella che si lascia sopraffare, che non può o non sa o non vuole organizzarsi per vincere, quella che – sconfitta -fa presto ad adeguarsi, a trovare tornaconto o soddisfazione in una situazione servile. I delinquenti di borgata, gli scippatori omicidi, i tossicodipendenti incapaci di veder qualcosa al di là del proprio buco, i disoccupati a vita che – in cambio di una casa «popolare» gratis e della condiscendenza di una legge (per loro) ipergarantista – accettano la subalternità, votano e applaudono i loro padroni. E ben volentieri assumono la cultura – e anche le canzoni – confezionate per loro: nella tenaglia fra il brivido della finta trasgressione (sesso droga e rock’n’roll) e la melassa degli spot televisivi e dei rif sanremesi.

Ecco: se è così, forse si potrebbe dire che i canti [popolari] non sono quelli della gente. Son quelli del popolo. Che poi altri non è se non la gente quando comincia a sentire la propria autonomia culturale, il suo «essere altro», diverso da chi comanda, diverso dai valori e dai modi di vita suggeriti o imposti da chi comanda.

 

GIUSEPPE VETTORI

In “I CANTI POPOLARI ITALIANI” – Newton

Foto: RETE

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