Vittorio Emanuele II, re galantuomo?

 

Quando era poco più che ragazzo, al seguito dell’esercito impegnato contro l’Austria, mentre i soldati morivano senza lamentarsi e – per la verità – senza capirne bene i motivi, lui ingannava il tempo facendo il tiro al bersaglio sui pavoni della cascina di Sommacampagna scelta come quartier generale del re. Peggio di un bulletto di provincia. Il fattore, che si vedeva distruggere un pollaio regale, stava per fare esplodere una guerra nella guerra ma poi fu chetato con 20 lire per ogni capo ucciso. “Spese militari”, naturalmente. Il generale Della Rocca, amico, compagno e sodale, ne lasciò una traccia nel suo diario: «La cena di quei giorni fu abbondante e gustosa».

Il Savoia, un po’ più avanti negli anni, segnato dal tempo e dall’età, usava il lucido delle scarpe per annerirsi i capelli già brizzolati che gli denudavano le tempie e la nuca. Ha lasciato l’impronta della sua testa sui frontali dei letti che frequentava maggiormente, perché, mentre faceva l’amore, si appoggiava con la fronte. E, almeno una volta, a Firenze, mentre presenziava a una cerimonia ufficiale, scoppiò un acquazzone e la pioggia cominciò a sciogliergli il colore che scivolò lungo il colletto della camicia.

Re galantuomo? Partì per Parigi dove avrebbe dovuto stringere un’alleanza strategica con Napoleone III eccitato dalla notizia che le parigine non portavano le mutande. Davvero? Forse gli sembrava straordinaria l’idea che bastasse sollevare loro le gonne. Ma come trovare conferma? Nel corso della cerimonia di benvenuto, prima ancora di salutare i suoi ospiti, si piegò verso l’orecchio dell’imperatrice Eugenia per chiederne conto. La first lady francese, che da quando era salita sul trono aveva assunto l’aria della santerellina, non potè evitare di turbarsi e fu vista aprire il ventaglio per nascondere le guance che stavano andando a fuoco.

Ai pranzi non gradiva per nulla le pietanze che gli presentavano e il più delle volte se ne stava impalato come un baccalà, di pessimo umore, senza toccar cibo e mettendo a disagio i convitati, primi fra tutti i padroni di casa. Stava invece d’incanto all’osteria, se gli offrivano una scodella di zuppa di fagioli che, minestra plebea, gli risultava di gran lunga più appetitosa. E poi non si affannava a trattenere i rumori di ventre, incoraggiando anzi i commensali a slacciarsi la cinta dei pantaloni per migliorare il decorso della digestione.

Re galantuomo? Per un secolo Vittorio Emanuele II ha goduto dello straordinario privilegio di essere raccontato soltanto dagli storici graditi a casa Savoia. Non necessariamente prezzolati – per carità – ma, certo, così benevolmente prevenuti che ognuno di loro si è sforzato di nascondere gli immensi difetti e si è prodigato per ingigantire le minime virtù. Nonostante questo impegnativo sforzo di autocensura e di celebrazione acritica, il risultato è deludente. Re galantuomo. Una banalità.  […]

Poiché, certamente, se il trono non può sopportare – ufficialmente – le terga di un mascalzone, significa che non c’era proprio null’altro da vantare. Ed è francamente poco. Per troppo tempo Vittorio Emanuele II è stato – quasi – oggetto di culto. I documenti d’archivio che lo riguardavano finirono in un vagone dei 18 treni che presero la strada per la Svizzera, portando in esilio quanto di prezioso o di interessante era conservato nei palazzi reali e nelle biblioteche. Il tesoro della corona, ovviamente, e i risparmi che potevano assicurarsi re, regine e principi; chincaglierie d’oro, quadri di qualche importanza, posate d’ordinanza, piatti di casa, bicchieri e coppette del gelato. Tutto quanto fu umanamente possibile fare scomparire. Una piccola rapina alla storia e all’erario organizzata con calma previdenza fra la caduta del fascismo e la caduta della monarchia. Le cronache compiacenti riferirono che gli ultimi successori di casa Savoia lasciarono l’Italia dignitosamente e con una valigetta soltanto. Il resto era già al sicuro da mesi nei forzieri neutrali della Svizzera.

È forse tempo di rivedere qualche pagina di storia andando controcorrente. Anche gli anni gloriosi dell’Unità d’Italia, sfrondati dai concetti ampollosi della nazione da liberare a tutti i costi, appaiono meno intrepidi, meno ideali e anche meno disinteressati. In fondo, uno dei motivi – e forse il maggiore – che ha impedito al Risorgimento di essere considerato al pari delle epoche più importanti dell’evoluzione storica italiana è stata la retorica di regime. Questo atteggiamento non solo ha allontanato le generazioni successive dal culto della patria che pretendeva d’imporre, ma ha impedito di vedere quanto di incompiuto aveva lasciato. Furono creati dei feticci e inventati eroi per le celebrazioni annuali. Da queste menzogne sono nate le nostre più rovinose avventure, a cominciare dalle guerre moderne.

La lente d’ingrandimento dei giorni nostri, sovrapposta con qualche irriverenza sul mito del futuro re d’Italia, lo mostra appena nato, la notte fra il 13 e il 14 marzo 1820. Parto difficile. Per il battesimo non si badò al risparmio: Vittorio Emanuele, Maria, Alberto, Eugenio, Ferdinando, Tommaso. Sembrano tanti ma è uno solo. E Massimo d’Azeglio confidava alle pagine del suo diario che non era nemmeno lui, perché il vero Vittorio Emanuele sarebbe morto in un incendio provocato dalla nutrice, e segretamente sostituito con il figlio del macellaio di Porta Romana, a Firenze: un certo Tanaca. Molto probabilmente questa storia melodrammatica non è vera ma, certo, chi la accreditò doveva essere piuttosto preoccupato di spiegare l’infima regalità del personaggio.

Due anni dopo, un altro fiocco azzurro in casa Savoia: Ferdinando, Maria, Alberto, Amedeo, Filiberto, Vincenzo. Anche in questo caso sembrano tanti ma è soltanto un fratello del futuro re d’Italia.

I due marmocchi vennero affidati a un gruppo di precettori parrucconi, mediocri in tutto ma rigidi nel pretendere rispetto dissennato alle formalità. Il cavaliere Cesare di Saluzzo, Gerbaix de Sonnaz e Saint Just, ovviamente cavalieri anche loro; poi il teologo Charvaz, padre Lorenzo Isnardi e l’istruttore Giuseppe Manno che facevano parte di diritto di quella vecchia aristocrazia piemontese che mostrava il tono rude e imperioso senza riuscire ad apparire autorevole. Tutti quei precettori erano uomini antiquati, scelti soltanto in base al loro zelo per la corona, vecchi d’età e di idee, consumati da cattivi pensieri, intrisi d’etichetta. Erano inflessibili sull’orario: sveglia alle 5 e mezzo di mattina, colazione sobria alla quale seguivano una quindicina di ore inconcludenti. Per cavarci qualche insegnamento utile, in quel clima e con quel corpo docenti, sarebbe stata necessaria l’intelligenza di un premio Nobel. Figurarsi Vittorio Emanuele che considerava la conoscenza una perdita di tempo. Le sue erano inclinazioni primitive, quasi animalesche. Gli piacevano i cavalli e le galoppate, la caccia e le corse nei boschi per inseguire gli animali, la sciabola e i duelli all’arma bianca. I libri lo innervosivano. I compiti lo mettevano di cattivo umore e per evitare di farsi sangue cattivo dovette spesso trascurarli. Controprova? Basta vedere gli errori di grammatica e di sintassi che infiorarono sempre la sua prosa scritta e parlata.

Le malelingue della servitù cominciarono con il sussurrare che fosse tardo di cervello. Silvano Costa corse ai ripari dichiarando che «ha gli occhi ben sfrontati, un bel nasino all’insù e una bocca graziosa». La madre, in alcune lettere indirizzate al padre Ferdinando III, granduca di Toscana, ricordò che, da piccino, si divertiva un mondo con un fucile di legno che gli era stato donato dal nonno. Più tardi, con affettuoso pessimismo: «Io non so veramente da dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti».

Quanto a Carlo Alberto, suo padre, già in preda a crisi mistiche che lo portavano ad ascoltare la messa alle 4 di mattina per dedicare un altro paio d’ore alla recita dei salmi, ridusse al minimo i contatti umani con Vittorio Emanuele limitandosi a parlargli per iscritto con la saccenza di un sovrano e l’inefficacia di un parente. Un giorno gli chiese di rispondere alla domanda se un nobile può occuparsi di commercio di cavalli. E quell’altro lavorò una settimana, sudando sulla carta da lettera e rompendo quattro matite, per concludere che «No, non sarebbe regale». Altre volte questo papà, alto e distante, gli diede da meditare i suoi pensieri politici ricchi di intuizioni elementari e di consigli davvero curiosi. Sottolineò, per esempio, con due tratti di penna la massima cui doveva attribuire grande importanza che, in caso di rivoluzione, un re deve restare padrone degli avvenimenti. Come consigliare a un malato a rischio d’infarto di tenere sotto controllo i battiti cardiaci.

Finalmente arrivarono i 18 anni e Vittorio Emanuele, nel castello di Moncalieri, riuscì a convincere una cameriera “fresca e giovane” a fare l’amore con lui. Poi non si riuscì più a tenere il conto delle avventure galanti. Si sposò con Maria Adelaide, figlia dell’arciduca Giuseppe Ranieri, viceré del Lombardo Veneto, e onorò le lenzuola coniugali con una vigoria quasi quotidiana e la passione che si riserva all’amore spensierato. Poi, per il resto del tempo, faceva vita da scapolo. A corte gli svaghi erano rari. L’unico movimento era quell’assiduo andirivieni di ragazzotte che – confidenzialmente – venivano chiamate “le graziose emigranti”. Qualche volta, però, era lui a uscire dal palazzo. Partiva per alcuni giorni e altrettante notti con un seguito di gentiluomini addetti a coprire fughe e scappatelle. I suoi piaceri risultavano rapidi e senza impegno, disordinati, senza finezze né fantasia. Un egoista d’amore. Come se si trattasse di una specie di obbligo da sbrigare senza sottilizzare troppo. Un esercizio che sembrerebbe più sportivo che lussurioso. Alle signore dell’alta società, eleganti e raffinate ma, certo, svenevoli e in qualche caso pretenziose, preferiva le contadinotte ardite e le popolane compiacenti. I letti a baldacchino li sostituiva volentieri con la paglia dei fienili. Lì non aveva bisogno di mascherare quello che era: schietto e persino grossolano, prepotente come uno smargiasso, fanfarone come capitan Fracassa. E non aveva bisogno di sforzarsi per parlare italiano: il dialetto piemontese andava benissimo.

Questa straordinaria vitalità fisica ricorda un altro personaggio a lui posteriore che, pur essendo nato plebeo, occupò un incarico simile: Benito Mussolini. Anch’egli non lasciava passare giorno (o quasi) senza incontrare una signorina nei quartierini di Palazzo Venezia. Anche per lui le udienze erotiche erano una specie di mordi-e-fuggi che non andavano mai oltre la mezz’ora: presentazione, conversazione, approccio, giù-le-braghe, risistematina, addio.

Freud ha spiegato che la vita sessuale dell’uomo civilizzato è gravemente pregiudicata al punto da sembrare in regresso. Questo dovrebbe significare che – al contrario – l’appetito dell’amore cresce con l’istinto selvaggio. Vittorio Emanuele si rivelò un campione di scappatelle. Per lui l’amore si risolse in una sequela di passioni diverse, che gli rendevano la vita varia e sempre nuova. Un gioco. Bastava fosse giovane e belloccia e che non facesse troppo la ritrosa. Si invaghiva di tutte senza innamorarsi di nessuna. Per aridità di cuore e per incapacità di amare. Come il don Giovanni di Kierkegaard che trovava piacere nel cambiare: istanti fuggitivi, sensazioni senza domani. Nella sua alcova non abitano immagini erotiche, sofisticate o intellettuali. È tutto straordinariamente uguale, meccanico, ripetitivo e persino banale. Un divertimento. Questo re fauno si rivelò un guascone impudente, spavaldo e maleducato. Con tutti. Ma con le donne sembrava persino peggio. Certamente non lo faceva apposta e probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto. Ebbe una figlia da Vittoria Duplessis, discendente alla lontana dei Richelieu. Una maestrina di Frabosa gli diede, invece, un maschietto e altri due figli gli vennero da Virginia Rho. Mise nel mazzo delle sue amanti Elisabetta, la duchessa di Genova, che era stata moglie del fratello. Ebbe una relazione con Maria Wyse e poi convinse Urbano Rattazzi a sposarsela. Non si faceva scrupoli. Lasciò che la diplomazia combinasse il matrimonio fra sua figlia Maria Clotilde e Girolamo Napoleone di Francia. Sapeva che quell’uomo non avrebbe fatto felice quella sua creatura. Figurarsi: lo chiamavano “Plon Plon” per il suo modo di camminare. Non era alto e nemmeno bello, grassoccio, con le palpebre spesse e gli occhi acquosi. In compenso si vantava di essere un ultraradicale volterriano e libertino. Non ci voleva molto a immaginare che avrebbe condannato la sua primogenita una vita sfortunata. Ma non fu trattenuto nemmeno da un barlume di dubbio perché quello sposalizio gli serviva per consolidare l’alleanza con l’altro Napoleone, quello importante, l’imperatore.

Alla vigilia del 1864 tentò di usare un altro fascino femminile per concretizzare un’alleanza con l’Austria Il comandante degli austriaci della piazza, di Verona, Benedek, non era insensibile al garbo di Laura Bon e il re galantuomo gliela mandò perché fosse “carina” con l’ufficiale. La Bon ormai aveva passato i quarant’anni ed era ancora una donna splendida, ma nel 1844, quando di anni ne aveva diciassette e Vittorio Emanuele le rubò il cuore, era fantastica. Il re le rovinò la salute e la carriera di attrice. Le diede una bambina e la fece registrare all’anagrafe come figlia del conte Vittorio di Roverbella. La mandò a Genova e a Parigi per togliersela di torno e lasciò che le nuove amanti le sguinzagliassero dietro alcuni poliziotti compiacenti con l’ordine di perseguitarla. Un amore tormentato che quel gentiluomo di re decise di regalare allo straniero in uniforme in cambio di una buona parola per favorire utili relazioni fra governi confinanti. Gli dovette sembrare una trovata geniale e lei, in ricordo di una passione che pure l’aveva straziata, non seppe rifiutarsi. Benedek, che conosceva la storia, rimase sconcertato dell’iniziativa e si comportò da signore: accolse la donna con tutti gli onori e fu gentile, ma non andò oltre.

Re Vittorio fece mettere a posto una cascina nella tenuta della Mandria e si sistemò in due stanze nel mezzo del caseggiato. A sinistra fece alloggiare la moglie con i figli ufficiali e a destra l’amante Rosa Vercellana con i figli morganatici.

Analogamente, anni più tardi, i figli Umberto e Amedeo si sposeranno con Margherita di Savoia e con Maria Vittoria Dal Pozzo ma continueranno a frequentare le rispettive amanti e per averle più facilmente a portata di mano le fecero nominare dame di compagnia delle mogli. Maria Vittoria morì di crepacuore; Margherita si rifece con il capitano dei corazzieri Antonio Bosisio che – secondo voci di pettegoli bene informati – era il vero padre del principino Vittorio Emanuele destinato, anche lui, alla corona con il numero III e il soprannome di “sciabolerà”. Ma qualche volta accadevano degli inconvenienti.

Una sera il gagliardo sciupafemmine entrò nella casa di una giovinetta passando per la finestra. Quando uscì fu assalito da tre individui (forse parenti della ragazza) e dovette combattere duramente a colpi di bastone. Alla fine della rissa, uno degli aggressori rimase per terra. Morto. Un omicidio. Preterintenzionale finché si vuole ma che, anche oggi, verrebbe giudicato da una corte d’assise. Casa reale indennizzò adeguatamente la vittima e «La Gazzetta d’Italia» si preoccupò di chiudere la vicenda pubblicando una nota sfrontata. «Il re ama le donne – tutto inciso nel piombo fuso -. Noi non lo sappiamo. Ma se il re ama le donne, se non può essere accusato d’aver troppo amato, saremo noi, il popolo innamorato per eccellenza, che crederemo grave una simile accusa? Il re ama le donne! E guai se non le amasse». Con licenza di reagire per le spicce come qualunque amante geloso.

In un’altra occasione, questa volta per difendere l’onore della sua donna che era stata criticata, prese a botte il direttore dell’«Armonia», il giornale di ispirazione clericale di Torino, e dovette provarne grande soddisfazione perché conservò il corpo del reato come un cimelio. In un suo cassetto, alla sua morte, trovarono un bastone spezzato in due con un’etichetta che ne spiegava l’origine: «Rotto sulla schiena di don Margotti per quanto scrisse di Rosina».

A Firenze, invece, si invaghì di Emma Ivon, giovanissima eppure corteggiata da mezzo mondo. Era discendente di un importante suonatore di oboe, la madre leggeva le carte dichiarandosi esperta in «consulti magnetici». In questa specie di gara per la conquista dei favori della fanciulla, il re arrivò primo e fu un ménage a tutta prima travolgente. Le fece sposare un funzionario della real casa, un tal Pessina, in modo da assicurarle una famiglia. Nacque un bambino sulla paternità del quale si disputò per un pezzo. Il «Corriere della Sera» raccontò che i compagni sporcavano il volto del giovane disegnandogli sul labbro un paio di baffi enormi per poi commentare: «Lui! tale e quale, lui!». Poi una sera Vittorio Emanuele bussò alla porta

della ragazza che evidentemente non lo aspettava e che sembrò molto sorpresa. Di sotto il letto, con i pantaloni in mano, uscì il barone Francesco De Renzis, un aiutante di campo di sua maestà, che nella corsa galante aveva conquistato la piazza d’onore. L’imbarazzo fu grande e per il re rubacuori si aggiunse un’umiliazione che non credeva possibile. Due giorni dopo, per disposizioni superiori, senza motivo dichiarato, l’ufficiale fu arrestato e tenuto in cella di rigore per due mesi nella fortezza di Alessandria. Vendetta. Come qualunque cornuto offeso.

 

LORENZO DEL BOCA

In “Maledetti Savoia” – Piemme

Foto: RETE

 

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