Un libro per amico: LA SOLITUDINE ROCCIOSA

 

La regione del Mercurion, dove il monachesimo italo-greco prese forma intorno al VI secolo d.C. e per ben ottocento anni, fino al XIII, segnò la storia di una vasta area culturale, conserva ancora preziose testimonianze, non soltanto sul piano archeologico, ma anche su quello archivistico-documentale. Su questa epopea storica intendiamo concentrare la nostra attenzione e, per far luce su alcuni aspetti rimasti insondati, ci confronteremo con gli scritti dei più importanti studiosi che hanno affrontato l’argomento.

Per monachesimo italo-greco, non intendiamo solo un evento racchiuso in un concetto temporale, piuttosto un intero capitolo di storia religiosa, economica, politica, sociale e artistica, che si colloca in un ambito territoriale vasto, ma che trova la sua apoteosi nella regione monastica del Mercurion. Ecco perché riteniamo limitative e insoddisfacenti definizioni quali monachesimo siculo-greco e ancor più monachesimo calabro-greco, anche perché gli avvenimenti compresi in questo lasso di tempo sono talmente complessi e intricati da non poter essere sintetizzati in definizioni che pretenderebbero distinguere sfumature così territoriali, quali quella siciliana o calabrese, perdendo di vista le connessioni storiche più profonde e radicali nelle quali il fenomeno del monachesimo dell’Italia meridionale affonda le sue radici.

Non ci convince nemmeno la definizione di monachesimo basiliano, in auge sino a non molti anni addietro, dentro alla quale non troviamo convincenti riscontri documentali. Certo, a questa definizione va riconosciuto il pregio di aver compiuto una sintesi dalla quale si è partiti per mettere a fuoco il fenomeno storico del primo monachesimo, ma che forse alla luce dei nuovi studi può essere percepita solo come l’eco di uno slogan che suona efficace e armonioso, come una pubblicità ben confezionata.

Le origini del monachesimo in Italia non sono ancora del tutto chiarite, tuttavia, si può affermare che fin dal I secolo esistevano dei cristiani che vivevano la religione in modo diverso dagli altri fedeli, conducendo una vita dedicata all’ascetismo e fondata sulla carità, l’umiltà e la mortificazione.

In una fase successiva, le comunità cristiane nel II secolo d.C. formatesi in ambiente urbano compresero di non riuscire realmente a separarsi dalle strette relazioni con i centri abitati circostanti e molti credenti, rifiutando tale ambiguità, decisero di ritirarsi nel deserto, in solitudine per praticare l’eremitismo (éremos, deserto) o l’anacoretismo (anachorésis, ritiro), oppure di isolarsi in piccoli gruppi, ovvero cenobi. È in questo momento che il fenomeno monastico prende forma sotto l’impronta dell’anacoretismo nella periferia di Alessandria di Egitto per diffondersi rapidamente nel deserto più interno di Scete, nell’alta Tebaide egiziana. La sua propagazione al di fuori dell’Egitto avvenne poi in epoca costantiniana (306-363 d.C.) e Basirlo di Cesarea fu colui che introdusse il monachesimo a Costantinopoli.

Ma sulla penisola italiana, il monachesimo, quando comparve? E in quali forme?

Per Silvano Borsari, nell’Italia meridionale la presenza di monaci, che definisce greci, risalirebbe al VI secolo, mentre, secondo quanto si può dedurre dalla lettura del Bìos di san Ilarione, in Sicilia si attesterebbe già intorno all’anno 363 d.C.

Sappiamo, infatti, che nei primi secoli dell’Età cristiana si verificarono numerosi trasferimenti di monaci dall’Oriente mediterraneo verso l’Italia meridionale, ma non sappiamo con precisione quando questi abbiano assunto l’aspetto di cui parlano gli storici, ovvero quello di vere e proprie ondate migratone, dirette principalmente sulle coste calabresi.

Biagio Cappelli, in un articolo del 1959 dal titolo, Il monachesimo basiliano e la grecità medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, afferma che il primo afflusso di asceti basiliani seguì gli spostamenti delle armate di Belisario e Narsete (534 d.C.) inviate da Costantinopoli contro i Goti di culto ariano, in una guerra che, come tutte le altre iniziative militari intraprese dall’Impero romano d’Oriente, aveva senza dubbio anche aspetti di carattere religioso.

Nel VII secolo, a seguito delle invasioni persiane, monaci melchiti fuggirono dalla Siria verso l’estremo lembo della Penisola. La scelta di questa area geografica non era dettata dal caso, ma legata a una antica tradizione migratoria che fin dall’Epoca classica, aveva visto numerose popolazioni greche ellenizzare ampie porzioni di territorio, fondandovi città divenute più ricche e più famose di quelle di provenienza. All’arrivo dei monaci, però, le pianure costiere, su cui una volta sorgevano le città della Magna Grecia, erano da lungo tempo rimaste incolte, disabitate, impaludate. Non meno dispopolato era anche l’interno della Calabria perché, aspro e selvaggio, era avviluppato da boschi talmente fitti da rendere difficile a chiunque di addentratisi. Ma proprio questo aspetto apparentemente inospitale della regione attrasse ondate sempre più frequenti di uomini bramosi di una vita di silenzio e contemplazione.

È, probabilmente, grazie ai monaci fuggiti dalla Siria (sotto l’incalzante invasione musulmana) che in Calabria apparve il famoso Codex Purpureus, il prezioso evangeliario custodito a Rossano che si compone di 188 fogli di finissima pergamena purpurea, contenente in origine quattro vangeli, di cui solamente quello di San Matteo e l’altro di San Marco (fino al versetto 14 dell’ultimo capitolo) sono giunti sino a noi. Non sappiamo se i monaci siriaci portarono il Codex dalla Siria o se lo realizzarono in Calabria dopo il loro arrivo.

Questa seconda ipotesi è avvalorata dalle testimonianze dell’esistenza in Calabria di una vera e propria scuola di riproduzione delle opere sacre che svolgeva le proprie attività non solo all’interno dei piccoli e ancora poco numerosi cenobi, ma soprattutto nelle grotte, nei romitori abitati da anacoreti o esicasti. Fulgido esempio di tale attività artistica è un episodio del Bios; di san Nilo. Il rossanese, pochi giorni dopo il suo arrivo nella regione dei monasteri del Mercurion, fu costretto a trasferirsi presso il cenobio di San Nazario, in quel di San Mauro la Bruca (in area salernitana). Il momentaneo trasferimento nelle terre dei principi longobardi, si rese necessario al fine di guadagnare l’abito monastico evitando che gli egumeni mercuriensi, Fantino, Giovanni e Zaccaria, incappassero nelle sanzioni che il governatore di Rossano minacciava nei confronti di chi lo avesse tonsurato monaco: taglio delle mani e confisca dei beni monasteriali. Nilo, recita il Bìos, nel cenobio cilentano «trascriveva elegantemente libri allo scopo di lasciare una memoria della sua gratitudine al monastero che l’ospitava».

Ma se a San Nazario, il Rossanese esercitò la sua arte calligrafica all’interno di un monastero, non con altrettanto agio potè fare quando tornò nel Mercurion dove, come ci riportano le testimonianze, decise di abitare nella grotta di San Michele. Qui, infatti, egli si dedicava quotidianamente al lavoro di copiatura di testi dal sorgere del sole (che Germano Giovanelli fa corrispondere alle sei del mattino) sino all’ora terza, le nove antimeridiane, dove realizzò la parte più cospicua della sua produzione. Del resto, un eremita che, per il proprio sostentamento, confidando nella provvidenza del Signore, non coltivava un orto e non allevava alcun animale, oltre alla raccolta di bacche selvatiche e frutti spontanei, poteva destinare almeno un terzo della propria giornata all’arte pittorica e calligrafica. Non a caso, le numerose spelonche, laure e cappelle del Mercurion, conservano tuttora affreschi, spesso di buona fattura.

Presso la grotta di San Michele, sotto la raffigurazione del Compianto su Cristo morto, di cui non rimangono che poche, benché significative tracce, Nilo poteva vergava ben otto fogli in ottava ogni giorno, un salterio ogni quattro giorni, che utilizzava come ricompensa per il dono dei pani che riceveva da san Fantino, o per pagare spese o debiti contratti con altre persone. Si pensi ai tre nomismata che fu costretto a restituire a un monaco, l’unico di cui il Bios non fa il nome, a cui aveva chiesto di darli ai poveri prima di fermarsi a vivere con lui presso la grotta santuario. Dopo non molto tempo, l’innominato monaco andò via, ufficialmente, perché esasperato (sclerotate, σκληροτάτη) dall’aspro tenore di vita in grotta. Di fatto, però, come lascia intuire il Bios niliano, la vera causa dell’allontanamento era l’avvenuto raggiungimento di un suo obiettivo personale, aver appreso «l’arte del bello scrivere».

Come escludere, pertanto, che in un contesto simile, all’interno di una spelonca, e non obbligatoriamente nello scriptorium di un monastero, possa aver visto la luce anche il Codex Purpureus? Si può ipotizzare che i primi monaci fuggiti dalla Siria si fossero portati dietro dei codici. Probabilmente pochi, trattandosi di una fuga e non di un semplice trasferimento, ma nelle regioni italiane di arrivo, essi continuarono la tradizione calligrafica, eseguendo la copiatura anche di quegli stessi volumi. Al Mercurion, dove ogni monaco (anacoreta o cenobita che fosse) doveva avere con sé almeno un salterio, l’attività di riproduzione dei testi doveva essere un’attività usuale che si svolgeva nelle grotte prima ancora che nei monasteri.

Una seconda ondata migratoria di monaci dalle terre orientali dell’Impero bizantino verso le regioni meridionali dell’Italia, si verificò a seguito della proibizione del culto delle immagini sacre da parte dell’imperatore Leone III, detto l’Isaurico che, con l’editto imperiale del 730 d.C., rese l’iconoclastia norma di legge, inaugurando, di fatto, una caccia spietata contro coloro che veneravano le icone. Tale episodio resta un capitolo ancora aperto alle diverse interpretazioni degli storici. In discussione è la reale portata del numero di religiosi, e non solo, che, dai territori orientali dell’Impero bizantino, migrarono verso le regioni della penisola italica.

Biagio Cappelli fu il primo storico a riflettere sul fatto che le mete di questi fuggiaschi non potevano essere le province italiane sottoposte al basileus, in quanto anche lì vigevano le stesse leggi contro le icone e suppose che sarebbero stati più idonei i territori sotto il controllo pontificio o quelli napoletani o, in alternativa, «i territori, confinanti con le province bizantine d’Italia, da poco conquistati dai Longobardi». In quest’ultima annotazione risiede la vera intuizione del Cappelli. Infatti, i monaci perseguitati confluirono proprio nell’impervia e spopolata regione del Mercurion, che fino al IX secolo rientrava nei domini dei principi longobardi. Un’estesa area geografica che, dalla foce del fiume Crati, sulla costa ionica, dove un tempo sorgeva l’antica Sibari, raggiungeva il corso del fiume Savuto, sul Tirreno, a sud di Amantea. Tutto questo territorio era caratterizzato da una lunga sequenza di santuari micaelici e castelli che, sparsi sulle alture delle montagne, costituivano il limes, il confine tra Principato longobardo e Thema bizantino di Calabria.

Non solo monaci, in effetti, ma anche popolazioni grecofone, a seguito dell’editto di Leone III, migrarono dalla Grecia, dal Medio Oriente e anche dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale, verso i territori al confine tra le attuali Calabria e Basilicata sotto il controllo longobardo. Molti dei monaci che arrivarono al Mercurion, provenivano da monasteri e, pertanto, in questi nuovi territori, non si dedicarono tutti alla vita anacoretica, ma iniziarono l’edificazione di monasteri che cambiarono l’aspetto del paesaggio. Il Mercurion, da terra di eremiti divenne regione monastica dove, alla primordiale vocazione per l’ascesi si aggiunse quella monasteriale. […]

 

GIOVANNI RUSSO

Dall’Introduzione

 

In breve:

Titolo: La solitudine rocciosa

Autore: Giovanni Russo

Anno di uscita: 2023

Pagine: 240

Prezzo: 25 euro

 

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