Il 25 aprile e l’eredità della dittatura

 

Non era stata esemplare, la Repubblica nata dalla Resistenza. Quanti magistrati e uomini della burocrazia dello Stato, vestiti in orbace alle inaugurazioni degli anni giudiziari a Palazzo Venezia, avevano osannato il Duce del fascismo, levato romanamente il braccio, urlato A noi! con voce tonante e dopo la Liberazione erano diventati procuratori generali, primi presidenti della Corte di Cassazione, giudici della Corte costituzionale, persino presidenti della Consulta. La continuità dello Stato, di quello Stato.

Corrado Stajano, Sconfitti (2021)

 

Per valutare l’eredità del fascismo, bisogna anzitutto analizzarne l’origine e collocarla dentro i tempi lunghi della storia italiana post-unitaria. Benito Mussolini, formatosi ideologicamente nella sinistra estrema (lo si può considerare il padre del massimalismo) su posizioni antimilitariste e radicali, risolutamente antidemocratiche, nell’autunno 1914 diviene interventista, valutando la guerra come il principale fattore rivoluzionario europeo. Nel quadriennio bellico, divulga strategie nazionaliste e reazionarie, invocando la corte marziale contro chi – dai socialisti ai cattolici – non condivide la politica bellicista.

Nell’immediato dopoguerra, quando il quadro politico appare dominato dai due partiti di massa (Partito socialista italiano e Partito popolare italiano), e il sistema liberale arranca, Mussolini costituisce un proprio movimento politico – i Fasci italiani di combattimento, fondati a Milano il 23 marzo 1919 – dai tratti repubblicani, patriottici, anticlericali e antisocialisti, in continuità con i valori della guerra impersonati dagli ex Arditi, che fungono da servizio d’ordine del duce e contendono le piazze alle sinistre. In otto mesi di dure battaglie politiche, i fascisti non riescono a crearsi un proprio spazio e la disfatta alle elezioni politiche del novembre 1919 sembra chiudere ogni prospettiva al movimento. In realtà, la confusione del quadro parlamentare – caratterizzato dall’incompatibilità tra socialisti e popolari, dalla progressiva crisi dei liberali e dall’inconcludente massimalismo delle sinistre – riapre spazi di manovra per Mussolini, che nell’autunno 1920 rientra da protagonista nella lotta, finanziato da agrari e industriali, avvalendosi di un decisivo valore aggiunto, sconosciuto ai rivali: il braccio armato delle Squadre d’azione, composte da giovani animosi. Alla vittoriosa battaglia contro le sinistre segue l’offensiva contro i liberali per la conquista del potere, conseguita a fine ottobre 1922 con l’assegnazione a Mussolini della guida del governo, sostenuto in Parlamento da liberali e popolari.

Ottenuta la presidenza del Consiglio, il duce muove accortamente le leve dello Stato per rafforzare il suo potere, svincolandosi dal sostegno degli alleati e puntando alla maggioranza assoluta. In questo processo, che dura dall’autunno 1922 per tre anni, il fascismo si fa Stato, recuperando le tradizioni più reazionarie dell’Italia post-unitaria, degli ex garibaldini Giovanni Nicotera e Francesco Crispi, divenuti alfieri di posizioni beceramente repressive. E beneficiando di una situazione interna in cui gli oppositori sono costretti al silenzio, al carcere o all’esilio.

Sarebbe tuttavia errato presentare il duce come il semplice erede dei conati illiberali post-unitari: il regime, infatti, mobilita le masse con modalità innovative e propone con grande forza propagandistica i miti della romanità imperiale e del nazionalismo esasperato, trovando un esteso seguito. E infonde alla gioventù la centralità della guerra quale prova decisiva della vitalità dei popoli; al bellicismo afferiscono campagne demografiche, militarizzazione della società, esercitazioni ginniche, parate ecc.

Regime e Chiesa si legittimano reciprocamente con i Patti lateranensi (11 febbraio 1929), dai quali traggono mutuo vantaggio. Repressione del dissenso e costruzione del consenso si combinano con grande efficacia, in una prospettiva modernizzatrice simboleggiata dalle «campagne» (del grano, delle bonifiche ecc.), con toni populisti. Le organizzazioni di massa del regime – Partito nazionale fascista, Opera nazionale balilla, Opera nazionale maternità e infanzia, Dopolavoro ecc. – divengono per la grande maggioranza degli italiani strutture nelle quali esplicare una parvenza di protagonismo.

Nel 1938 il regime lancia una nuova campagna, di matrice razzista, che emargina e penalizza i cittadini «di razza ebraica». Si tratta di un’assoluta novità per l’Italia unitaria, accettata – con più o meno zelo – dalla monarchia e dalla prevalenza della popolazione.

Dopo la «riconquista» del territorio libico, a partire dall’ottobre 1935 Mussolini schiera l’Italia in guerra, in una ininterrotta sequela di aggressioni: Etiopia (ottobre 1935), Repubblica di Spagna (dicembre 1936), Albania (aprile 1939), Francia (10 giugno 1940), Grecia (28 ottobre 1940), Jugoslavia (aprile 1941), Russia (agosto 1941).

L’entrata in guerra del 10 giugno 1940, insomma, non derivò da un errore di valutazione ma costituì lo sbocco logico e inevitabile del fascismo (ciò risulta incomprensibile alle anime candide, convinte che, se il duce avesse mantenuto l’Italia neutrale, tutto sarebbe andato al meglio). Il punto su cui – dal 1914 al 1945 – Mussolini rimase assolutamente coerente è proprio la guerra: la esaltò e la praticò, con i risultati che si sono visti. E, sulla guerra, il regime colò a picco, divenendo impopolare sino a implodere il 25 luglio 1943, con la sfiducia espressa dal Gran consiglio del fascismo al suo capo. Per poi tornare a una tragica parvenza di potere nella dimensione collaborazionista della Repubblica sociale, innescando la guerra civile.

Nel dopoguerra, si affermò tra gli antifascisti la vulgata di un Paese piegato dalla violenza della dittatura, ma che nonostante tutto aveva serbato sentimenti di opposizione al mussolinismo. Teorema poi aggiornato per la Resistenza nell’interpretazione comunista del «popolo alla macchia», che dà il titolo al noto testo di Luigi Longo pubblicato nel 1947. La maggioranza degli italiani è stata complice del fascismo, e non certo vittima come si è voluto credere e far credere con versioni autoconsolatorie sull’esistenza di un’estesa opposizione al regime, poi sfociata nella lotta di popolo del 1943-45. Versioni funzionali ad esigenze politiche e a strategie identitarie, che hanno troppo a lungo condizionato la ricerca storiografica e ancora oggi trovano convinti sostenitori. In realtà, il fascismo – dopo avere vinto a livello militare e politico – ha profondamente modificato il Paese, e l’antifascismo si è ridotto, negli anni Trenta, a un fenomeno nettamente minoritario. Il «paradigma antifascista» ha enfatizzato i tratti della brutale oppressione e sminuito il consenso di massa del regime (ancorché, almeno in parte, canalizzato da un imponente apparato propagandistico). Ed è rimasto sottotraccia il problema del lascito della dittatura ai più diversi livelli: politico, legislativo, burocratico, morale, ideologico, di costume…

Il fascismo, tra l’altro, non è stato un fenomeno «provinciale»: ha rappresentato un modello per il Portogallo di Antonio Salazar, la Germania di Adolf Hitler, la Spagna di Francisco Franco… E anche nel secondo dopoguerra tratti «mussoliniani» sono rinvenibili nel populismo di Perón in Argentina, nella dittatura dei colonnelli greci ecc. Alcuni tipici elementi distintivi – negazione della democrazia, rapporto diretto del leader con la folla, valorizzazione di violenza e guerra, disprezzo per le minoranze – si ripresentano oggi in Italia e in vari contesti internazionali. Anche per questo motivo, studiare il fascismo non è qualcosa di archeologico, ma un viaggio dentro la crisi della democrazia, nel laboratorio della costruzione di una dittatura populista.

La fascistizzazione dell’Italia è stata profonda, ha innervato le istituzioni pubbliche, gestite da decine di migliaia di funzionari sostenitori – tranne isolate eccezioni – del regime. Il Paese ha faticato a trarsi fuori da un disastro di dimensioni incalcolabili, e da un malcostume endemico, prosperato anno dopo anno. Il regime, insomma, immiserì la coscienza degli italiani, incentivò la delazione e accrebbe la diffidenza tra i cittadini, alimentò una pedagogia mussoliniana che ha segnato in profondità le nuove generazioni, un sistema corrotto che ha compromesso molti degli stessi oppositori con gli intrighi della polizia politica, in una dimensione di vischiosità dalla quale liberarsi e pervenire a un’etica della responsabilità – dopo un ventennio di abitudine all’obbedienza ai gerarchi – era ben più arduo di quanto non si creda. E, non ultima eredità, ha prodotto un autoritarismo precettistico che ancora oggi ci angaria nella vita quotidiana, degradandoci a sudditi e vanificando lo spirito della Costituzione.

 

MIMMO FRANZINELLI

In “Il fascismo è finito il 25 aprile 1945” – Laterza

Foto: RETE

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