Il forte ridimensionamento della rotta tirrenica attraverso lo Stretto di Messina può aver innescato processi di crisi all’interno dei gruppi sociali dominanti, certamente costituiti dalle élites in più diretto contatto con gli Egei, Lipari come nel resto delle Eolie e lungo il versante tirrenico della Calabria meridionale; non si può escludere, pertanto, che gruppi minoritari, archeologicamente riconoscibili forse attraverso quegli aspetti “appenninici” della cultura del Milazzese, provenienti dalla penisola, possano aver preso il potere; questo sovvertimento, unito al declino mercantile dell’area, determina una rarefazione degli insediamenti e un loro arroccamento in siti più interni, naturalmente difendibili, analogamente alle restanti culture archeologiche subappenniniche della penisola e della Sicilia.
I riflessi di questa crisi sul versante tirrenico della Calabria settentrionale e del Golfo di Policastro sono invece disastrosi; con la decadenza della rotta tirrenica viene meno la funzione di siti costieri sviluppatisi anche e soprattutto in relazione ai traffici marittimi, siti che vengono ora abbandonati per sempre.
II totale abbandono di tutti questi insediamenti non può essere ricollegato alla presunta migrazione degli Ausoni, provenienti dalla Campania e diretti verso le Eolie e la Sicilia: orde barbariche che fanno terra bruciata di tutto ciò che incontrano lungo il cammino; piuttosto, io credo che il fenomeno debba leggersi nella direzione di una forte attrazione esercitata, su gruppi che non avevano più alcun motivo valido di rimanere nelle loro sedi, assai scomode nel caso delle grotte, dal vicino cantone della Sibaritide, molto più ospitale da un punto di vista ambientale, dove il contatto, ora profondo, coi Micenei ha determinato la nascita di nuove tecnologie, di nuovi sistemi di produzione e di redistribuzione, maggiori occasioni di sviluppo, una sensibile crescita demografica e un embrione di organizzazione sociale più complessa e, forse, anche di incunaboli di identità etnico-politica più definita.
Il ricordo della presenza di una componente culturale italica, tirrenica, che, in un particolare momento di crisi, determinato da una cesura nel rapporto tra i Micenei e le Eolie e della conseguente destabilizzazione del corpo sociale, prende il potere a Lipari, potrebbe essere effettivamente stato sistematizzato in epoca storica e tradotto nel più facilmente comprensibile concetto di migrazione degli Ausoni dalle loro sedi originarie tra Lazio e Campania, non casualmente coincidenti con quelle degli Aurunci, gli Ausoni di epoca storica, lungo la costa tirrenica fino alle Eolie e alla Sicilia.
Come vedremo in seguito, è tuttavia molto probabile che il riconoscimento di una componente etnica ausone sia da addebitarsi a tradizioni di più recente formazione, all’epoca della più antica colonizzazione.
Al contrario, il costituirsi di un sistema insediativo territoriale molto ben organizzato nella Sibaritide, ma anche nei restanti cantoni del Golfo di Taranto, da Crotone a Taranto stessa, fortemente caratterizzato dal contatto e dall’apporto egeo, nelle produzioni, ma anche nell’organizzazione della società, con la comparsa di forme di accumulo di derrate entro dolii di terracotta, proprie dell’economia palaziale e sconosciute al resto dell’Italia protostorica, potrebbe essere all’origine della formazione dell’ethnos degli Enotri.
Ma anche il concetto di Enotri è fortemente funzionale al fenomeno della colonizzazione greca, achea in particolare; questa, infatti, viene esattamente a coincidere territorialmente con l’arco ionico del Golfo di Taranto, da Crotone a Metaponto, dove si ubicano generalmente le principali sedi degli Enotri protostorici. E quindi, la sostanziale uniformità culturale degli indigeni stanziati nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. nelle zone che ospiteranno le formazioni coloniali achee, la loro consapevolezza di costituire entità politiche fortemente strutturate da secoli, anche a causa del contatto con gli Egei, contatto del quale, probabilmente sotto forma di tradizioni orali e di miti locali, in qualche modo serbavano il ricordo, e il riconoscimento di tutto ciò da parte degli Achei stessi che, d’altro canto, avvertivano la necessità di postulare comunque un’origine ellenica di queste genti per poter rivendicare il possesso della loro terra, da luogo alla formazione dell’etnico degli Enotri che, ormai, anche i linguisti considerano un eteronimo.
Con ciò si spiega, a mio giudizio, la sovrapposizione di Enotri ed Ausoni che si verifica nell’area costiera tirrenica compresa tra il Sele e Temesa, come vedremo meglio poi.
Per le fasi più antiche della protostoria, quindi, credo sia prudente evitare di addentrarsi in ricostruzioni di un assetto etnico dell’Italia meridionale in assenza di documenti più probanti della sola documentazione archeologica e della ricostruzione etnografica greca, sempre funzionale a fenomeni comunque intrinseci al mondo delle poleis greche o coloniali e mai condotta con criteri di obiettività scientifica, quali quelli delle notazioni di Erodoto sulle popolazioni barbariche orientali, per esempio.
II quadro generale sembra piuttosto propendere, per la media e tarda età del Bronzo, verso il riconoscimento di una generica uniformità etnica di tutte le popolazioni dell’Italia peninsulare che si esplica nelle analogie riscontrabili nelle modalità insediative e nella cultura materiale, seppur con connotazioni areali anche molto forti, in alcune zone e in alcuni periodi, frutto però di situazioni particolari, dovute a contatti e influenze con civiltà allogene più evolute che determinano la nascita di facies archeologi che ben riconoscibili.
E così, il definitivo esaurimento dell’apporto egeo verificatosi tra XII e XI secolo determina una nuova omogeneità nelle culture dell’Italia meridionale che perdurerà almeno fino a tutto il IX secolo a.C. (orizzonte protovillanoviano del Bronzo finale e orizzonte più arcaico della prima età del Ferro).
La struttura stessa delle comunità protostoriche, se non per alcune delle più evolute (Lipari, Thapsos, per alcuni aspetti la Sibaritide), non sembra aver mai superato, per tutta l’età del Bronzo, lo stadio dell’organizzazione di villaggio, senza una evidente gerarchia tra gli insediamenti, se non tra centro maggiore e centro minore; il sistema insediativo della Sibaritide mostra chiaramente come nel vasto comprensorio, nell’ambito del quale la piana detritica probabilmente non era ancora utilizzata, ci siano state risorse territoriali sufficienti allo sviluppo di un certo numero di piccole comunità di villaggio indipendenti; quando alcuni di questi villaggi sono cresciuti demograficamente, lo hanno sempre fatto a scapito di quelli circostanti, il cui territorio è stato verosimilmente inglobato per le accresciute necessità di approvvigionamento (exploitation area).
Tutto lascia credere, quindi, che gli indigeni qui stanziati non abbiano mai posseduto tutti i requisiti necessari per definirsi essi stessi un popolo; che non abbiano mai avuto, cioè, la consapevolezza di costituire una più vasta comunità di tipo regionale, caratterizzata stabilmente dalla medesima lingua e dalla medesima cultura, che percepisce la propria unità e la diversità rispetto alle altre comunità e che, su questi fondamenti, dia origine a una compagine anche politicamente organizzata. Sebbene non si disponga delle tradizioni locali, è pur vero che non è rimasta nessuna traccia delle tipiche forme politico-religiose nelle quali si esprimeva l’identità etnica delle popolazioni antiche, quali leghe, dodecapoli, santuari federali, attestate, invece, per gli Etruschi o i Latini forse già dalla fase protovillanoviana, almeno per questi ultimi.
L’unico indizio in tal senso è costituito dalla tradizione che fa di Italo, re degli Enotri, l’istitutore dell’usanza dei sissizi, nell’ambito di una più vasta conversione del suo popolo dalle pratiche pastorali a quelle dell’agricoltura (Arist. Poi., VII, 1329b); Aristotele fissa questo evento in un’epoca antichissima, precedente al regno di Minosse:
I sissizi (pasti in comune) sono un’antichissima istituzione; quelli di Creta hanno avuto inizio sotto il regno di Minosse, mentre quelli dell’Italia sono molto più antichi. Secondo il parere degli storici uno di coloro che abitavano colà, un certo Italo, divenne re degli Enotri e da lui questi presero il nome di Itali invece che Enotri, ed il nome di Italia fu attribuito a tutto il promontorio d’Europa che va dal Golfo Scilletino a quello Lametino, distanti mezza giornata di cammino. Fu proprio questo Italo che, secondo la tradizione, trasformò gli Enotri da pastori in agricoltori, dando loro numerose leggi e fu il primo ad istituire il sistema dei sissizi.
In altre parole, credo che difficilmente gli abitanti di uno dei villaggi protostorici dell’Italia Meridionale percepissero se stessi come membri di un raggruppamento omogeneo più vasto rispetto al sistema-villaggio nel quale erano inseriti; dubito, cioè, che riconoscessero se stessi parte di un più vasto agglomerato umano che definiamo ethnos; un’aggregazione di comunità che riconoscono un’autorità superiore e si dotano di organismi comuni di tipo politico e/o religioso, come avverrà poi per tutti i popoli italici di epoca storica che, anche quando distribuiti katà komas nel territorio, sebbene vasto e talvolta impervio, riconosceranno la loro comune radice etnico-politica nel santuario confederale o, come per il caso dei Lucani, quando in periodo di guerra si affideranno a un solo re (Strabo VI, 1,3).
Nulla di tutto ciò è ipotizzabile per le popolazioni indigene della protostoria; l’archeologia non ci presenta mai situazioni per le quali sia possibile ipotizzare il ruolo centrale di un insediamento piuttosto che di un altro attraverso la presenza di edifici di particolare rilevanza, residenze regali di tipo palaziale o tombe principesche, quali emergeranno, invece, al momento della ripresa dei contatti col mondo greco; né sono stati finora rinvenuti indizi relativi alla sfera religiosa di tipo pubblico, forse con la sola eccezione del santuario sul Timpone Motta di Francavilla Marittima, per il quale taluni dementi, ancora di controversa interpretazione, potrebbero indurre a postulare la presenza di un luogo di culto presibarita sull’Acropoli.
In conclusione, non credo che sia possibile procedere a una attribuzione dei vari ethne attestati dalla tradizione letteraria per le popolazioni dell’Italia Meridionale alle diverse culture protostoriche che, attraverso i metodi propri dell’archeologia, è stato possibile individuare, senza incorrere in forzature metodologiche; ciò è vero anche se gli storici antichi hanno cercato di proiettare l’origine di questi etnici nel passato più remoto attraverso il succedersi di ondate migratone ed il dipanarsi di complesse genealogie, un passato che viene naturalmente a sovrapporsi e, talvolta, anche a coincidere, col succedersi delle facies archeologiche. Non si può escludere, infine, che proprio il ricordo di alcuni eventi percepiti come fondanti e tramandati localmente sia stato in seguito valorizzato e utilizzato dalla tradizione greca per dare verisimiglianza storica alla ricostruzione etnografica (arrivo di genti dalla Penisola a Lipari).
GIOACCHINO FRANCESCO LA TORRE
In “La Calabria tirrenica nell’anrichità” – Atti del Convegno – Rende 2000, Rubbettino
Foto: RETE