Anche il vino, sebbene considerato un genere di lusso e accessibile soprattutto ai ceti benestanti, nella società tradizionale è percepito dalle popolazioni come una bevanda e un elemento essenziale, a cui si rinunciava con grande disagio e disappunto. Non a caso pane, olio, vino vengono accostati quasi sempre sia nelle norme dietetiche, sia nelle considerazioni attinenti all’economia familiare. Dice un proverbio calabrese: « Si c’è la farina, l’uogliu e lu vinu a casa è china» («Se c’è la farina, l’olio e il vino, la casa è piena»). Il folklore, i testi derivati da tradizioni orali, i canti, i proverbi, i modi di dire attestano la nostalgia, il desiderio, il piacere del vino dei ceti popolari. Un buon pasto è sempre accostato alla presenza del buon vino in quanto, come dice un proverbio, «’U mangiari, senza ‘mbivari – è comu ‘u nuvultu senza chiovari» («II mangiare, senza bere – È come un cielo nuvoloso senza pioggia»). Mangiare senza vino rinvia a una sorta d’incompiutezza.
Il vino faceva bene, generava benessere e «portava bene». Quando cadeva sulla tavola o per terra era di buon auspicio e le persone si affrettavano a bagnare le dita o la mano e a toccare altre parti del corpo. L’usanza persiste e la caduta del vino sulla tavola, contrariamente a quella dell’olio, è accolta con favore e accompagnata da espressioni augurali. Anche nel corso dei matrimoni, in numerosi paesi, c’era l’usanza di gettare vino per terra o di spezzare il bicchiere pieno di vino, con chiari intenti augurali e propiziatori, quasi a suggellare l’inscindibilità del matrimonio.
Si beveva per augurio e per conferma dei rapporti di parentela, di amicizia, di comparatico. Tutti i riti di passaggio, nascita, matrimonio, vedono il vino come protagonista. Pensiamo ai brindisi, che restano ancora oggi un momento di divertimento, e sono al contempo un modo per dichiarare rapporti, per prendere in giro i componenti del gruppo, per far risaltare una serie di legami.
Sognare vino e uva annunciava disgrazia, proprio perché nella realtà vino e uva godevano di grande considerazione e la cultura popolare attuava una sorta di rovesciamento e di inversione semantica dei cibi e degli oggetti che comparivano nei sogni. Il vino ha inoltre la capacità di rendere allegri, di allontanare i pensieri, di agire insomma sulla psicologia di individui che vivevano condizioni di disagio e di melanconia. La Città del Sole di Tommaso Campanella è un’opera fortemente antimelanconica. I «Solari», non a caso, vestono di bianco, aborriscono il colore nero, fuggono da un universo poco allegro, monotono, di oppressione. Il vino nelle opere del filosofo è una sorta di medicina antimelanconica, un liquore divino, che genera allegria.
II consumo del vino introduce sempre in una dimensione ludica, conviviale. Sappiamo che era un piacere e un obbligo offrire vino a chi entrava in casa e che rifiutare l’offerta spesso significava dichiarare ostilità. Bisognava accettare, perché chi «non accetta non merita». Nella cantina, ma anche altrove, in occasione delle feste, dei pellegrinaggi, dei riti, il vino confermava e ribadiva rapporti, a volte presentificava rotture di legami e inizio di inimicizie. La cantina è il luogo dei giochi, del passatempo, delle relazioni degli uomini, che sfogano conflitti e tensioni.
I demologi e gli antropologi hanno studiato in tutta l’Italia meridionale il gioco della «passatella», o «patruni e sutta», che si faceva con le carte da gioco o «tirando al tocco»: il vino qui non è visto come una semplice bevanda, ma diventa un gioco serio e con molte regole. Spesso i gruppi che si coalizzano nel gioco non sono casuali, e non di rado si trascinava a giocare qualcuno col quale si avevano conti in sospeso per risolvere, sul piano simbolico del gioco, il contenzioso presente nella vita reale. Il «patruni e sutta», in alcune sue forme radicali, mette in scena le logiche che sottendono la vita di un gruppo. Determinate leggi dell’onore, determinate strategie amicali, l’abilità retorica e la capacità di primeggiare in un gruppo, l’orgoglio di chi, extrema ratio, decide di bere tutto il vino in gioco, che può essere tantissimo, pur di non soccombere alla strategia di un avversario.
La cantina, che spesso dai benestanti veniva considerata una sorta di luogo di perdizione e di dissoluzione, dai suoi frequentatori era considerata uno spazio dove si stabilivano legami fraterni. Nel mio paese si racconta la storiella dei due amici che in cantina bevono, parlano e non vogliono mai lasciarsi. Escono nella notte, percorrono su e giù la strada che porta alla casa dell’uno e alla casa dell’altro. Accompagna che ti accompagno, non giungono mai a casa. L’alba li sorprende ancora allegri e inseparabili. Questa storiella di vino e di amicizia mi sembra racconti una vicenda di incompiutezze, di vicinanze, di socialità che non sono ancora del tutto scomparse nei paesi.
VITO TETI
In ”Fine pasto” – Einaudi
Foto: RETE