IL PASSATO CHE NON PASSA- L’amnistia Togliatti

 

L’amnistia emanata il 22 giugno 1946 dal ministro della Giustizia (nonché segretario del Partito comunista) Palmiro Togliatti è l’esito di un braccio di ferro tra i sostenitori del «perdonismo» (Democrazia cristiana, Vaticano, movimento dell’Uomo Qualunque, liberali, monarchici ecc.) e chi invece (Partito d’Azione, comunisti, socialisti) intendeva chiamare a giudizio i responsabili della dittatura fascista e della guerra civile scatenata dalla Repubblica sociale. Il testo stilato da Togliatticon la sovrintendenza tecnica del suo capogabinetto Gaetano Azzariti, […] si prestava, anche per alcune incongruenze, a interpretazioni differenti a seconda del criterio adottato. E la Suprema corte di Cassazione, appena l’euforia della Liberazione si sedimentò e l’operato delle Corti straordinarie d’assise si affievolì, assunse una netta posizione in favore degli imputati fascisti: nel volgere di pochi mesi, infatti, tornarono liberi i comandanti dello squadrismo, i segretari del Partito nazionale fascista e i ministri del regime, i delatori e i persecutori degli ebrei, i collaborazionisti dei tedeschi e i fucilatoli, inclusi i criminali di guerra… Contemporaneamente si avviarono procedimenti giudiziali contro ex partigiani, imputati per reati di natura comune e spesso sottoposti a prolungati periodi di detenzione preventiva […].

Lo stravolgimento di spirito e sostanza dell’amnistia, attraverso sofismi e interpretazioni «disinvolte», ha dell’incredibile.

La II sezione penale della Cassazione il 30 maggio 1947 amnistia «per gli omicidi compiuti dai suoi gregari il comandante di reparti fascisti che abbia trasmesso note di elogio e proposte di encomio relative ai gregari stessi per uccisioni di partigiani, non potendosi ritenere che ciò costituisca istigazione a commettere fatti dello stesso genere, perché sia di concorso semplice nel reato sia di quello aggravato per istigazione non si può parlare se non in rapporto ad un’azione delittuosa in atto e non in potenza e l’approvazione del fatto compiuto non genera necessariamente con vincolo di causalità diretta un identico fatto futuro».

Il requisito della particolare efferatezza delle torture, previsto dal decreto di amnistia quale motivo di esclusione dei benefici di legge, si presta a contorsioni sul genere della decisione con cui la II sezione penale della Cassazione cancella il 17 settembre 1946 la condanna di un milite fascista seviziatore di un partigiano:

Perché si abbiano sevizie particolarmente efferate, ai fini dell’esclusione dell’amnistia, occorre notevole diminuzione del potere di resistenza della vittima e manifestazione di assoluta mancanza di senso umanitario da parte dell’agente.

Nel caso di chi ha partecipato alla tortura di un partigiano il quale con le mani e i piedi legati fu sospeso al soffitto facendogli con pugni fare il pendolo per ottenere che accusasse i compagni, senza raggiungere l’intento, manca il primo degli estremi suddetti ma resta il dubbio se le torture suddette configurino anche l’estremo della mancanza di senso umanitario in modo indiscutibile assoluto. E poiché anche qui vale la massima in dubio prò reo (tanto più che il colpevole è un giovane il quale può non avere approfondita la gravita di ciò che faceva, ed essersi lasciato trascinare dallo spirito di obbedienza e disciplina verso il capitano) è il caso di applicare l’amnistia con tutte le conseguenze di legge.

La medesima sezione della Cassazione, nell’ambito delle decisioni a senso unico, regolarmente favorevoli agli imputati fascisti, il 12 marzo 1947 accoglie il ricorso presentato da un ufficiale della XXII brigata nera «Antonio Faggion», colpevole di orribili violenze contro una staffetta partigiana vicentina:

È applicabile l’amnistia ad un capitano di brigate nere che, dopo avere interrogato una partigiana, l’abbandona in segno di sfregio morale al ludibrio dei brigatisti che la possedettero, bendata e con le mani legate, uno dopo l’altro, e poi la lasciarono in libertà; giacché tale fatto bestiale, che sta a dimostrare il bassissimo grado di moralità dell’imputato e la mancanza di ogni sentimento di pietà, non costituisce sevizia e tanto meno sevizia particolarmente efferata, ma soltanto la massima offesa al pudore e all’onore di una donna, anche se essa abbia goduto d’una certa libertà essendo staffetta dei partigiani.

Sentenza commentata favorevolmente dal direttore dell’autorevole rassegna «Archivio penale», per il quale la staffetta partigiana sarebbe stata assoggettata a semplici maltrattamenti, alla stregua di «coiti contro natura»; secondo quel giurista, sarebbe «interessante di accertare se un atto sessuale possa costituire sevizie; non vi ha dubbio che ciò debba escludersi se sia avvenuto a scopo di libidine, mentre potrebbe ritenersi se sia avvenuto a scopo di mortificare e di maltrattare» («Archivio penale», 1957, p. 394).

Evidentemente, pregiudizio politico e maschilismo costituivano un tratto identitario di molti giuristi dell’epoca. Ne fornisce ulteriore prova la sentenza del 10 settembre 1947, sempre da parte della II sezione penale della Cassazione, presieduta da Vincenzo De Ficchy, figura chiave della continuità istituzionale, metodicamente impegnato nell’annullamento delle condanne inflitte dalle Corti d’assise speciali ai collaborazionisti. A suo avviso, «alla depilazione delle parti genitali di una partigiana, eseguita mediante forbici, non può attribuirsi il carattere di sevizie particolarmente efferate», e pertanto i responsabili di tale ludibrio vanno senz’altro amnistiati.

Un’altra illuminante sentenza della II sezione penale della Cassazione annulla il 14 febbraio 1948 la condanna di un gerarca fascista:

Perché ricorra il delitto di atti rilevanti non è sufficiente il semplice fatto di aver esercitato determinate cariche fasciste, se pure di continuo, e con adesione all’idea (nella specie segretario federale, in ambiente inoltre limitato e periferico), né l’aver soltanto espletato il mandato parlamentare fascista, votando in tale qualità le più importanti leggi fasciste, per sola manifestazione di conformismo in un’assemblea inoltre costituita mediante arbitraria scelta del Governo, asservita al medesimo, e non risultante dalla manifestazione della volontà popolare. Occorrono, invece, singoli atti specifici, concreti e determinati, che debbono, per qualità e quantità, essere tali da imporsi alla generale considerazione, rispetto alle normali azioni ed ai comuni atteggiamenti della vita individuale, e data la loro indiscutibile importanza, gravita e valore politico.

La Corte d’assise di Rovigo documenta le torture inflitte a un gruppo di partigiani da elementi della XIX Brigata nera su iniziativa del milite Romeo Pollastri, condannato il 23 novembre 1945 a 20 anni di reclusione:

Prima di iniziare l’interrogatorio lega loro mani e piedi e per farli parlare e confessare i nomi dei compagni e i posti dove tengono nascoste le armi e li batte a sangue con bastoni e nervi di bue. Al Moda fa togliere le scarpe e calze e si dà a battergli le piante dei piedi con un nervo di bue. Un cane lupo che si trovava nella stanza si avvicinò alle due vittime che giacevano al suolo per leccare il sangue che colava dalle ferite, mentre il Pollastri assieme agli altri militi ridevano e mangiavano e bevevano.

Ma il 14 gennaio 1947 la II sezione penale della Cassazione cancella pure questa sentenza e proscioglie il torturatore, considerando che «la continuità delle percosse durate una decina di minuti, pur essendo sevizie, non presenta caratteri di particolare efferatezza, poiché le sevizie stesse non sono tali da destare profondo orrore».

E, sulla medesima falsariga, il 7 luglio 1947 discetta sulla durata delle torture, amnistiando torturatori sadici che, oltre a infierire sulle vittime con schiaffi, pugni e bastonate, le percuotevano sui testicoli e ne comprimevano la testa con cerchi mobili di ferro:

A costituire sevizie particolarmente efferate, non è sufficiente un atto di crudeltà insita nel semplice concetto di sevizia, né basta che la crudeltà sia soltanto inumana o quasi propria delle fiere, cioè efferate, ma occorre che raggiunga e sorpassi ogni limite di sopportabilità e costituisca un episodio di vera barbarie.

Nel caso che, oltre schiaffi, pugni e nerbate, negli atti si parli di compressione dei testicoli e di applicazione alla testa del paziente di un cerchio gradualmente restringibile, senza escludere che tali atti possano costituire sevizie particolarmente efferate quando per la loro durata e intensità abbiano superato ogni limite di sopportabilità, ciò non può affermarsi quando le stesse parti offese non abbiano precisato per quanto tempo siansi prolungate le compressioni dei testicoli e l’applicazione del cerchio alla testa e fino a qual punto questo sia stato stretto e neppure abbiano lamentato di aver riportato una qualche conseguenza dannosa.

Gli stralci antologici di sentenze della Cassazione riempirebbero pagine e pagine, concomitanti nell’esito di annullare le condanne contro repubblichini e collaborazionisti, ma se ne può compendiare il senso nella sentenza del 24 aprile 1948 (sempre sotto la presidenza del citato De Ficchy), di amnistia a un brigatista torturatore e omicida:

Le percosse prolungate seguite da scosse nervose del paziente e l’obbligata ingestione di un frammento di disco di fonografo con conseguenze dannose per gli organi addominali, le quali facilitarono lo sviluppo successivo dell’ileotifo, malattia che produsse poi la morte, non arrecarono dolori torturanti in grado intollerabile, né rivelano animo del tutto disumano, quindi non costituiscono sevizie particolarmente efferate.

Centinaia di seviziatori non particolarmente efferati vengono dunque prosciolti e liberati, in una deriva giudiziaria rivelatrice dello spirito dei tempi, ovvero della tendenza politico-ideologica della Suprema Corte di Cassazione, cinghia di trasmissione della continuità dello Stato e della sopravvivenza di stilemi fascisti in regime democratico. A coronamento delle dissertazioni sul livello di efferatezza necessario per l’esclusione dai benefici dell’amnistia, la Cassazione nella sentenza del 7 marzo 1951 applica il diritto dalla prospettiva e dalla sensibilità del torturatore:

«Sevizia particolarmente efferata è soltanto quella che, perla sua atrocità, fa orrore a coloro stessi che dalle torture non siano alieni».

Testimonianze sconcertanti di una giustizia in transizione, amministrata da magistrati che – usciti carichi di onori dal ventennale servaggio – scoprono l’indipendenza dell’ordine giudiziario, e facendosi scudo di essa emanano sentenze faziose, improntate alla più squisita «giustizia politica».

Nel Centro-Nord le ondate di scarcerazioni producono sconcerto, rabbia e proteste di piazza. Il ministero dell’Interno dispone, attraverso le prefetture, un’indagine conoscitiva, dalla quale risultano dimensioni e conseguenze dell’applicazione estensiva dell’amnistia […]. Togliatti, intuita l’insostenibilità della situazione, nel cambio di governo dal primo al secondo gabinetto De Gasperi (a metà luglio 1946, un mese dopo l’emanazione dell’amnistia) lascia il dicastero della Giustizia al compagno di partito Fausto Gullo, impotente a modificare l’orientamento della Cassazione nettamente favorevole ai condannati fascisti. Le proteste riecheggiano anche all’Assemblea Costituente negli interventi di alcuni socialisti. In particolare, il 22 luglio 1946 Sandro Pertini interroga il capo del governo sugli effetti del decreto di amnistia che «per la sua assurda larghezza non ha precedenti nella storia né del nostro, né degli altri Paesi»; chiede l’intervento di De Gasperi per evitare che quel provvedimento «sia dai competenti organi della Magistratura interpretato in modo così lato da rimettere in libertà e da reintegrare nei beni già confiscati anche i veri responsabili della presente tragica situazione, in cui versa il nostro Paese, offendendo in tal modo la sensibilità di quanti per la guerra e per il fascismo hanno tanto sofferto e suscitando, quindi, sdegni e risentimenti che non varranno a portare nel nostro popolo quella pacificazione, che dovrebbe essere lo scopo primo dell’amnistia in parola»; sollecita l’applicazione del «decreto 6 gennaio 1944, n. 9, affinché siano riassunti senza ritardo in servizio e reintegrati in tutti i loro diritti di carriera gli antifascisti, che sotto il fascismo e per motivi politici furono dispensati o licenziati dal servizio e che ancora oggi si trovano disoccupati, mentre si vedono fascisti resisi a suo tempo colpevoli di gravi infrazioni in danno della Nazione rioccupare i loro posti e riscuotere non solo gli arretrati per il servizio non prestato ma, cosa più assurda, anche il premio di liberazione»; infine, propone alla Costituente di «emanare provvedimenti legislativi, atti a seriamente difendere la Repubblica contro tutti i suoi nemici». De Gasperi, dal canto suo, tace. Risponde, in tono imbarazzato e generico, il nuovo guardasigilli, cui replica con veemenza l’interpellante, dichiarandosi insoddisfatto e rimarcando la necessità di «dare solide fondamenta alla nascente Repubblica democratica italiana»: «La Repubblica non può e non deve imporsi con la violenza e coi tribunali speciali, come ha fatto il fascismo; ma la Repubblica si imporrà anche a coloro che hanno votato per la monarchia quando realizzerà se stessa, cioè quando darà vita a quelle riforme di carattere sociale ed economico che faranno apparire la Repubblica come l’espressione degli interessi e delle aspirazioni del popolo italiano. Ma perché la Repubblica possa dar vita a queste riforme bisogna che non sia insidiata nella sua esistenza. Noi vogliamo essere indulgenti verso tutti coloro che, nemici ieri, si dimostrano ravveduti oggi e vogliono operare nella legalità repubblicana, ma dobbiamo essere inesorabili e implacabili contro tutti coloro che tentassero di violare l’ordine repubblicano».

 

MIMMO FRANZINELLI

In “Il fascismo è finito il 25 aprile 1945” – Laterza

Foto: RETE

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