ANTICHE OLIMPIADI, il luogo e la tifoseria

Ricostruzione di Olimpia

 

Olimpia non era e non fu mai una vera città. Era solo un centro religioso dedicato alle feste che si svolgevano attorno al recinto sacro (Altis) di Zeus, che come abbiamo visto sarebbe stato creato da Eracle. All’interno del recinto stavano un altare dedicato al dio, altri pochi altari e un piccolo santuario legato al nome di Pelope. Attorno – come scrive Pausania nella Periegesi della Grecia e come confermano le ricerche archeologiche – inizialmente non esisteva alcuna struttura architettonica, così come non esisteva uno spazio riservato all’unica gara originariamente prevista, vale a dire la corsa.

A partire dal VI secolo a.C. il luogo si sviluppò, in concomitanza col crescere dell’importanza delle gare all’interno del circuito panellenico: questo determinò il moltiplicarsi delle costruzioni in muratura, comprese quelle sacre (tra le quali un tempio dedicato a Hera). All’interno del tempio di Zeus, poi, nel V secolo venne collocata una colossale statua del dio in oro e avorio, considerata capolavoro di Fidia e inclusa fra le sette meraviglie del mondo.

L’incremento del personale amministrativo portò quindi alla costruzione di una Casa del Consiglio preposto ai Giochi (Bouleuterion), mentre la rilevanza dei tesori sacri che si accumulavano in loco portò alla costruzione dei “Tesori” di dodici città. Accanto al recinto fu tracciato il primo stadio, successivamente perfezionato e spostato.

In seguito all’aumento del numero degli spettatori e all’affluenza della varia umanità attirata dall’evento si decise di erigere un palco, e il recinto sacro venne separato dallo stadio da un muro e un colonnato.

Un albergo destinato ad atleti e allenatori (che ospitava anche i funzionari e i visitatori più importanti) fu costruito solo nel IV secolo; tra il III e il II secolo venne poi realizzata una palestra per gli atleti, che fino a quel momento si erano esercitati e allenati all’aria aperta.

Ben poco, per non dire niente, era previsto per il benessere degli spettatori e della folla di coloro che, comunque, non volevano perdersi l’evento, via via sempre più importante. A eccezione dei pochi privilegiati ospitati in albergo, la massa si sistemava secondo la propria condizione sociale ed economica: c’era chi montava una tenda, più o meno grande e comoda; c’era chi si accontentava di dormire all’aperto, possibilmente sotto i portici. Per molti, insomma, assistere ai Giochi comportava fatiche e disagi, dal caldo a volte soffocante dell’estate greca al fastidio delle mosche e delle zanzare, dalle quali era difficile difendersi. A questo proposito Pausania (v, 14, 1) riferisce il racconto secondo cui Eracle, mentre era a Olimpia, era tormentato dalle mosche e, per questa ragione, fece un sacrificio a Zeus Apomyios (che allontana le mosche). In base a questo precedente – continua Pausania -, anche gli Elei sacrificano a Zeus per cacciare le mosche da Olimpia.

Ma gli insetti non erano che uno dei tanti fastidi. Come scrive nel I secolo d.C. Epitteto, “a Olimpia non ti senti forse soffocare? Non sei oppresso e pigiato? Non sei al centro di tumulti e di grida? Tu sopporti tutto questo, io credo, perché ti sembra il prezzo necessario per assistere a un simile spettacolo”. In effetti, pare fosse così: niente riusciva a scoraggiare gli spettatori, neppure la difficoltà dell’approvvigionamento idrico. L’acqua del fiume, le sorgenti e le cisterne non erano sufficienti, e nei mesi estivi le condizioni igieniche lasciavano molto a desiderare – per non dire che erano spesso disastrose.

Fu solo nel ll secolo d.C. che le cose migliorarono: il ricchissimo Erode Attico fece costruire a proprie spese dei canali lunghi oltre un chilometro che convogliavano l’acqua in una grande esedra di oltre dodici metri, sormontata da statue dello stesso Erode, della sua famiglia e degli imperatori romani da lui più amati. Ma per molti secoli il problema era stato veramente serio.

Nel ll secolo, Luciano di Samosata (grande ammiratore dei Giochi, ai quali nel corso della sua vita assistette ben quattro volte) scrive che “a molti spettatori dei Giochi olimpici accadde di soffrire la sete. Molti morivano a causa di violente malattie, che per la siccità della regione si diffondevano con grande facilità, colpendo una gran quantità di persone” (Morte di Peregrino, 19).

Ma niente riusciva a smorzare l’entusiasmo del pubblico: la partecipazione era comunque enorme. Secondo Cicerone, Pitagora disse che la vita umana gli sembrava varia come la fiera che si teneva a Olimpia in occasione del più grande spettacolo dei Giochi fatto con il concorso di tutta la Grecia, dove “alcuni, dopo lunga esercitazione fisica, cercavano la gloria e la nobiltà dell’incoronazione, mentre altri vi si recavano per vendere e comprare, spinti dal desiderio di guadagno. E c’era gente che, sommamente nobile, non cercava né gloria né guadagno, ma veniva per vedere e osservare che cosa vi si faceva e come” (Tusculanae disputationes, V, 3). Più sinteticamente, ma con grande efficacia, Menandro così descriveva questi giorni: “Folla, mercato, acrobati, divertimenti e ladri”.

Era un’umanità davvero varia, insomma, quella che si raccoglieva a Olimpia: mercanti che alzavano baracche e tende per vendere mercanzie di ogni tipo, dai fiori al cibo, alle bevande; cantanti e danzatori che intrattenevano la folla, oratori più o meno improvvisati che la arringavano, acrobati che si esibivano a ogni angolo praticabile, giocatori d’azzardo, lenoni che controllavano le loro squadre di ragazze. Queste esercitavano il mestiere nelle strade e sotto i portici, con l’unico limite del sacro recinto: lì non erano ammesse – oltre che per la loro professione – per il fatto di essere donne.

I limiti posti alla partecipazione femminile in occasione della grande festa popolare erano in effetti numerosi. Le donne non solo non potevano prendere parte alle gare: non potevano neppure assistervi come spettatrici. A dimostrarlo, un celebre episodio che conosciamo grazie al racconto di Pausania (V, 6, 7-8): all’Olimpiade del 404 a.C., Ferenice (a volte chiamata Callipateira), figlia del celebre pugile Diagora di Rodi, aveva personalmente allenato il figlio Pisiro, che intendeva partecipare alla gara di pugilato per ragazzi. Il giorno in cui il figlio combattè, lei si travestì da uomo per assistere all’incontro. Ma quando Pisiro vinse, travolta dall’entusiasmo, Ferenice scavalcò il recinto riservato agli allenatori con tale slancio che la sua veste vi rimase impigliata, lasciandola nuda. A salvarla dalla punizione fu solo la sua appartenenza a una nobile famiglia di atleti olimpionici, ma il fatto era troppo grave per non avere conseguenze: e a partire da quella data si stabilì che gli allenatori dovevano presenziare ai Giochi nudi.

Infine, qualche considerazione sull’atteggiamento degli spettatori mentre assistevano alle singole gare. Nonostante l’alto valore dello sport e la nobiltà della vittoria intesa come ricompensa per un impegno al tempo stesso fisico, intellettuale ed etico, non di rado l’incitamento e il sostegno che gli spettatori davano ai loro beniamini erano dovuti a motivi che con tutto questo nulla avevano a che vedere.

Nel 212 a.C., ad esempio, durante un incontro di pugilato tra Clitomaco di Tebe e Aristomaco, protetto dal re Tolomeo IV d’Egitto, Aristomaco assestò all’avversario un pugno particolarmente efficace e il pubblico prese a incitarlo con grande entusiasmo. Clitomaco si fermò e chiese: “Ho forse commesso qualche scorrettezza, ho forse violato qualche regola? Voi lo sapete bene, io combatto per la gloria dei greci, lui per quella del re Tolomeo. Volete forse che un egiziano batta i greci vincendo la corona olimpica?”. A quel punto, si racconta, l’atteggiamento degli spettatori cambiò a tal punto che Aristomaco perse la gara: più per quel mutamento che per merito di Clitomaco.

Il pubblico, insomma, non era esattamente imparziale. E, al di là di questo, era così esagitato e scomposto che, attorno al 100 d.C, il celebre oratore Dione di Prusa (detto Dione Crisostomo, vale a dire “Boccadoro”) durante una pubblica orazione esortò i suoi ascoltatori a comportarsi in modo più decoroso rimproverandoli per le loro urla, l’eccitazione, lo spasimo, i contorcimenti, i gemiti e le maledizioniche lanciavano. Non sarebbero stati così agitati – aggiungeva Dione – neppure se invece di assistere a una corsa di cavalli (per i quali è cosa normale correre) fossero stati incalzati dalle sventure di una tragedia. Infine, con un invito ironico (e presumibilmente vano) alla ragione, ricordò loro che nessun cavallo avrebbe corso meno se loro si fossero comportati con decenza.

 

  1. CANTARELLA – E. MIRAGLIA

In “L’importante è vincere” Feltrinelli

Foto: RETE

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