– Come, quando, dove e perché sono nati I COGNOMI

 

 
La nascita dei cognomi in Italia, dal punto di vista cronologico e delle modalità, rappresenta uno degli interrogativi che più incuriosiscono e avvincono anche il ricercatore professionista, il quale è ancora ben lontano dal poter dare risposte sicure.

Quand’è che, nella catena onomastica con cui una persona viene designata, si può parlare effettivamente di cognome in senso moderno?

Presso i Romani il cognomen (< cum nomen) accompagnava il praenomen individuale e quel nomen che fu per secoli il più importante elemento della catena onomastica, indicando il gentilizio, cioè l’appartenenza a una gens.

Ancora oggi nomi largamente usati derivano appunto dai nomi delle gentes, e non da quelli individuali: così Claudio proviene dalla gens Claudia. Il cognomen era piuttosto un soprannome individuale: Cicerone (‘porro’) era prima di tutto Marco Tullio; Cesare (‘elefante’?) era in origine Gaio Giulio; Plauto (‘dai piedi piatti’) si chiamava Tifo Maccio; e appartenevano rispettivamente alla gens Tuttia, lulia e Maccia.

Sparito il sistema dei tre nomi latini, i primi secoli del Medioevo furono caratterizzati dal «nome unico». Un solo nome portavano i cristiani dei primi secoli; uno soltanto i popoli germanici che si stanziarono in Italia.

Con l’inizio del secondo millennio, i maggiori spostamenti delle popolazioni, i commerci, la crescita dei centri abitati, la regolamentazione di compravendite, i testamenti e le donazioni si scontrarono con un elevatissimo tasso di omonimia. Vennero così assegnati alle persone secondi nomi.

Il nome aggiunto al primo poteva essere un soprannome, il patronimico o il matronimico (ossia il nome di uno dei genitori), il mestiere esercitato o il luogo di provenienza del nominato. Si trattava, più che di un cognome, di un secondo nome individuale.

Soltanto in rarissimi casi si trasmetteva di padre in figlio, e questa trasmissione poteva peraltro interrompersi all’altezza di una qualsiasi generazione.

Si può parlare di vera diffusione dei cognomi intorno al XIV-XV secolo, e quasi esclusivamente per le famiglie nobili o comunque ricche e potenti: il nome «trasmesso» era un simbolo di appartenenza, di collocazione nella società e nella gerarchia familiare. Veniva talvolta esibito come uno stemma o un palazzo o una torre. Era insomma un affareeconomico e perfino politico.

I motivi per cui un cognome comincia a trasmettersi sono infatti legati all’eredità, ai commerci, allo status sociale. A seconda del luogo e del tempo, il nome di famiglia diventa ora garanzia sociale, ora marchio di eccellenza – nobiltà, potere politico, potere economico , ora meccanismo utilizzato per conservare il potere dei propri ascendenti, ora strumento con il quale indicare i criteri per la trasmissione dei beni.

Certo è che il nome di famiglia, o meglio le catene onomastiche formate da più elementi, alcuni dei quali ricorrenti, tendono a comparire prima nelle classi sociali elevate e solo in tempi successivi (sempre con meccanismi e in spazi temporali che variano da situazione a situazione) vengono utilizzate anche dalle classi medie e infine da quelle meno abbienti e acculturate. (…)

Il cognome modernamente inteso è cinque-seicentesco.

Nasce quando comincia a rispondere a tre caratteristiche. Primo: una stabile (o quasi) trasmissione di generazione in generazione. Secondo: l’immutabilità e la non flessibilità (la forma non cambia di numero e di genere). Terzo: la non corrispondenza quanto al significato con la realtà del portatore, che potrà chiamarsi Grassi, Pisano o Vaccaro indipendentemente dall’aspetto fisico, dalla provenienza o dal mestiere esercitato.

Per trovare in tutta Italia il carattere di immodificabilità del cognome nel passaggio da una generazione all’altra dobbiamo aspettare il Sei-Settecento. E nei paesi più piccoli e sperduti addirittura l’istituzione generalizzata dell’anagrafe comunale, ossia l’Unità d’Italia.

Da “Dimmi come ti chiami e ti dirò perché” di E. Caffarelli

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