“Chiamarsi” è il verbo riflessivo più strano che conosca

 

Capisco verbi come lavarsi – io lavo me –, guardarsi – io guardo me –, addirittura mangiarsi – io mangio me -, animalesco.

Ma pensando alla riflessività di chiamarsi, avverto un senso di contrasto: io mi chiamo Laura non ha in realtà il senso di io chiamo me con un certo nome, quanto più significa gli altri mi riconoscono, mi identificano con (in) questa parola.

Mi sembra, dunque, che il nome non serve al suo proprietario, alla persona che lo porta, quanto invece è ad uso degli altri: non sento il bisogno di avere una denominazione per definire la mia identità a me stesso, quella parola non aggiunge niente al mio essere, ma, al contrario è un servizio fondamentale che rendo agli esterni, alla società. Nel momento in cui si presenta istanza di avere un nome è perché si desidera essere riconosciuti dal mondo; dunque si richiede di essere forniti di una qualifica, quasi di un oggetto materiale che, come una moneta, possa essere scambiato da chi è al di fuori perché questi ultimi possano comunicare e trasmettersi tra loro, in modo semplificato, chi sono io.

Tutto sommato il nome è un frame che ognuno riempie con quello che vuole.[…]

Le denominazioni sono ciò che è visibile e dunque ciò che ha vita (vivo esclusivamente perché classificabile, leggibile dagli occhi del mondo) e l’essere che ci sta dietro si direbbe essere solo il sogno dei nomi che li identifica, che li rende comunicabili, scambiabili, che forse li “mercifica”.

La maschera del nome, è ciò che la società ha codificato, digerito, assimilato; esso è il mezzo tramite cui ci assegna determinate caratteristiche: come a teatro, dietro l’Arlecchino o l’Amleto non importa la persona che lo interpreta, ma il pubblico riconosce le caratteristiche del personaggio, dietro cui l’attore reale annulla la sua vera personalità, tant’è che una stessa maschera viene interpretata mille volte, in mille periodi diversi, da mille persone diverse.

Quelle poche lettere che mi chiamano appaiono dunque come le sbarre di una gabbia, i lacci di un’inutile, ipocrita camicia di forza che la società mi cuce addosso; ma d’altro canto rifiutare di avere un nome significa perdere la possibilità di essere riconosciuto, significa in definitiva diventare invisibile.

Questo accade tanto per le persone quanto per le architetture o per i luoghi: se non è possibile definire il tipo la categoria di uno spazio, codificare i comportamenti da tenere, la funzione o l’insieme di regole entro cui il fruitore deve agire, esso viene abbandonato, esce dai flussi di vita umani: il luogo in sé continua ad esistere, fisicamente, ma diventa inabitato, invisibile, emarginato.

Divincolarmi dalle strette briglie del nome, allora sarei davvero libero – penso.

Socchiudo l’uscio della libertà, sbircio al di là della porta, pensavo di trovare un tesoro.

La vista che ho invece è desolante, mi terrorizza: emarginazione.

Se varco la soglia vado incontro a solitudine e incomprensione – capisco: bisogna essere fortissimi per essere veramente liberi.

Non è il mio caso, indugio, ho paura dell’invisibilità, in silenzio richiudo la porta.

La decisione è presa, allora abbasso la testa, mi piego, obbedisco.

Mi svuoto, mi annullo, rinuncio al lusso di rendere visibile agli occhi esterni quello che sono veramente.

Sono luogo di incontro, affaccio di edifici, punto di sosta e scambio per chi mi pratica, ecco ciò che sono: una piazza. Ma a chi importa, mi chiamano piazzale Lotto, gli altri. Per alcuni di essi sono poco più di una rotonda automobilistica, per altri lo slargo in fondo a via Monte Rosa, o una fermata della metro, il punto in cui prendere un panino al baracchino ambulante, un cantiere, perfino una discarica.

Funziona così: mi faccio dare un nome, lo accetto senza poterlo scegliere (Lotto come il pittore? O il gioco del lotto o cos’altro? non lo so nemmeno), lo adotto per tutta la vita, divento un barattolo, vuoto, da riempire.

Sono uno, due, cento barattoli riempiti di visioni e di memorie altrui e più barattoli sono maggiore sarà il numero di persone per cui sarò presente, vivo, visibile. Finché non sarò in grado di farmi vuoto non potrò avere un contatto con l’altro, non potrò avere un legame, non potrò essere cornice che accoglie il dipinto dei ricordi che l’altro farà di me.

“Due persone che iniziano ad amarsi ripetono l’una il nome dell’altra e spesso tornano con il pensiero a dire e ridire quel nome. Perché il nome è più che una parola: invoca ed évoca la presenza.” Ermes Maria Ronchi.

Di LAURA CRESPI

Fonte: http://www.lastampa.it/2011/09/30/blogs/culturanatura/nomina-sunt-omina-istante-iii-5BkwunANrp6zwBNcJS03SK/pagina.html

Foto RETE

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close