
Le parole del prof. Teti in questa intervista a “Il Ciriaco” allo Sponz Fest offrono molti spunti su cui riflettere
“Arrivando in un paese abbandonato, non posso indugiare in una forma di autocompiacimento egoistico e pensare: che bello; osservando un paese vuoto posso solo interrogarmi sul perché lo sia e se questa trasformazione sia irreversibile.” Seguire il percorso delle parole di Vito Teti è assistere all’ultima strofa di Ad esempio a me piace il Sud di Rino Gaetano, quando tornante dopo tornante, si sono superati la donna in lutto, il contadino e i bambini che giocano, e si resta soli, magari a interrogare se stessi ripetendo “Ma come fare non so”, anche perché intorno iniziano a scarseggiare gli interlocutori; perché qualcosa da dire c’è sempre, il vero problema è “ma a chi?”. Professore ordinario all’Università di Calabria di Antropologia Culturale, ha insegnato presso diverse Università e istituti culturali stranieri (Toronto, Montreal, Parigi) e i suoi lavori più recenti sono stati pubblicati per Quodlibet, Einaudi e Rubbettino. Giovedì 22 Agosto alle ore 19.00 torna, come ospite dello Sponz fest, a Calitri per un incontro con Mimmo Lucano. Il sud, l’erranza meridionale, l’identità; la lunga discussione con Vito Teti non può che iniziare con la politica, seguendo le comunicazioni in Senato per la crisi di governo.
Il presidente del Consiglio Conte, prima dell’annuncio delle sue dimissioni, ha ricordato l’impegno delle forze politiche per realizzare l’autonomia differenziata, ma rispettando il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione: un disegno piuttosto ossimorico.
“Non ho potuto seguire in diretta l’intervento, ma posso affermare che questa autonomia differenziata altro non è che una secessione mascherata, una separazione elitaria, e che siano proprio i cinque stelle a fare appello al principio di solidarietà dopo questa esperienza di governo fa abbastanza sorridere. Quando si è posto il problema di ragionare sull’autonomia regionale, anche in chiave federalistica, si è scelto di percorrere vie bizantine arzigogolate e tortuose, e adesso che questa opzione è oggetto di discussione, se portata fino in fondo, condurrebbe alla separazione di fatto tra nord e sud. Quello che non è riuscito a Bossi, potrebbe realizzarsi in un futuro non molto prossimo, disgregando completamente l’unità nazionale.”
Un’unità frantumata come la stessa identità nazionale, tra retorica neoborbonica e culto padano.
“L’identità nazionale, in verità, è una grande invenzione: di quale Italia stiamo parlando? Ci sono mille Italie con sovrapposizione e contrasto di culture, lingue, dominazioni. La stessa Calabria ha tante identità differenti: aragonese, romana, magnogreca. La celebrazione neoborbonica auspica un ritorno ad un passato, in realtà mai esistito, per mascherare le incapacità di oggi: una sindrome de l’age d’or, mitizzando un’epoca che dal punto di vista storico non può esserlo – i Borboni non sono sicuramente da rimpiangere -. Fare riferimento alla Borbonia Felix è un attentato alla storia, come cancellare la rivoluzione napoletana o il Risorgimento. Una fuga indietro nel tempo per dare la colpa agli altri, una forma di autoassoluzione dei ceti meridionali che amano ripetersi “Noi siamo così, perché è così che ci vogliono gli altri.”. Occultare le differenze storico-sociali, fuggire dalla storia e rimpiangere un paradiso perduto non condurranno a nessuna reazione efficace per il Sud, soprattutto ora che non sappiamo bene in che direzione stiamo andando.”

Guardando i risultati delle elezioni europee e comunali, dalla Riace di Mimmo Lucano alla Calitri dello Sponz fest c’è una crescita esponenziale della Lega. La direzione del Sud da “Terra inquieta” – come la Calabria di cui ha scritto- e quindi terra di emigrazione, sta diventando la terra del rifiuto?
“Il paradosso della Lega è che volendo separare l’Italia dal punto di vista amministrativo sia riuscita a unificarla dal punto di vista morale: il calabrese che vota Salvini non vede come il meridione sia stato descritto negli ultimi vent’anni; è stato terrorizzato da una propaganda che con l’arrivo dei migranti faceva intravedere un attentato alla sua sopravvivenza. Sicuramente è stato anche un voto di protesta, sia quello per i cinque stelle che per i leghisti, strumentalizzando la paura e il disagio della gente. Per cambiare la rotta occorrerebbe una classe dirigente matura, e il suo senso di responsabilità; riscoprire con lo studio e il dibattito l’importanza dell’analisi e delle riflessioni, senza dimenticare il disagio sociale degli ultimi e contrastare la criminalità organizzata. E’ incredibile come la percezione del pericolo possa derivare dagli stranieri e contro le mafie negli ultimi anni non si sia fatto nulla, anzi la mancata critica della Lega, il suo silenzio, appare rassicurante e al tempo stesso quasi compiacente.”
Sempre parlando di politica, lei è stato candidato al Parlamento per il Pci nel 1987 e per il Pd nel 2006, oltre ad essere stato assessore provinciale alla Cultura. Qual è il suo bilancio personale con la politica?
“Questo tipo di esperienza mi ha lasciato completamente disilluso e disincantato. Il mio impegno, dal sessantotto, è sempre andato avanti per rispondere a una richiesta dei giovani, della comunità in difficoltà: per restare in ascolto degli ultimi; eppure la passione politica per cambiare le cose è stata tradita dai partiti e dai gruppi della sinistra che hanno iniziato a gestirsi in maniera inappropriata, non hanno fatto crescere i giovani, sono diventati autoreferenziali, con il risultato di allontanare le forze che volevano un cambiamento per la cosa pubblica; di fatto si sono registrati come difensori meno attenti dei ceti popolari, dei più deboli. Un tentativo di rinnovamento radicale della sinistra deve esserci, è assolutamente necessario; ma per un piano di lungo periodo e di rinnovamento della società occorre anche un mondo attivo come quello dell’associazionismo, il volontariato, bravi amministratori, e soprattutto ricostruire le comunità, perché quello a cui assistiamo è la morte dei luoghi. Senza neanche più fare distinzioni tra nord e sud, ma tra interno e esterno, come testimoniano i paesi abbandonati dell’Appennino e alcuni delle Alpi: anche questa idea assurda della montagna come luogo improduttivo dovrebbe essere contrastata con nuove politiche. I giovani, intanto, continuano a fuggire; in passato per necessità o nella speranza di migliorare la propria condizione, ma adesso sono sempre più numerosi quelli che desiderano restare, per creare nuove opportunità.”
Questo è il concetto di Restanza che lei ha espresso in “Pietre di pane. Un’antropologia del restare”.
“La mia generazione è figlia di padri emigranti e adesso da padre anziano mi trovo con un figlio che vuole partire; perché non si attuano strategie per limitare la fuga, non si creano servizi, perché non si investe nella cultura del territorio. Non si crea turismo, i beni archeologici non vengono studiati, diventano oggetto di contemplazione. Parafrasando Alvaro, mentre le élite locali si rifugiano nel passato di un tempo, i ragazzi se ne vanno – un tempo erano i contadini-. Non ho una concezione nostalgica del passato, credo nell’opportunità di decidere per sé del proprio percorso, creare nuove forme di accoglienza, senza un atteggiamento passivo. Anzi, restare è una forma estrema di spaesamento, che non ti fa riconoscere il posto dove abiti. L’etica della restanza è una scommessa, una possibilità di mettersi in gioco e accogliere anche chi viene da fuori.”
Recentemente è iniziata una discussione sull’opportunità di restare dopo un’intervista di Repubblica a Franco Arminio in cui lanciava l’appello: “Ragazzi tornate, il Sud si spopola per il lavoro che non c’è”. Cosa pensa a riguardo?
“Non voglio cominciare nessuna polemica, perché io per primo ho deciso di tornare e restare nel mio paese, San Nicola da Crissa, ma il discorso è differente quando si invitano i giovani a restare: puoi fare un annuncio del genere se hai un progetto a lungo termine, se il territorio dispone di un sistema sanitario adeguato, se la viabilità è garantita. Non ci possono essere slogan in questa fase, né nostalgia contemplativa o romanticismo estetico. Preferisco percorrere la via dell’analisi, studiando le dinamiche umane, con tutti i silenzi che occorrono, una strada più lunga, certamente: una forma laica di ora et labora, per intenderci.”
Di Bianca Fenizia
Foto RETE