De Tavel “Lettere dalla Calabria” – ORSOMARSO

Apparse a Parigi nel 1820 le lettere inviate da de Tavel al padre dal dicembre 1807 all’ottobre 1810 costituiscono una sorta di diario di guerra dei tre anni trascorsi dall’autore in Calabria come ufficiale dell’esercito di occupazione. Le crudeltà, i crimini, gli agguati, le insidie e i disagi della guerra finirono col pesare sulla scrittura e sui giudizi riguardanti la Calabria e i suoi abitanti. Le osservazioni e i particolari narrati consentono, purtuttavia, di avere un quadro preciso e significativo delle reali condizioni della maggior parte dei calabresi e dei loro usi, costumi, tradizioni, agli inizi del XIX secolo.

  • Copertina flessibile: 174 pagine
  • Editore: Rubbettino (1 febbraio 1997)
  • Collana: Il viaggio
  • Prezzo: Euro 6.20

Di seguito viene riportata la XXXV lettera, scritta a Castrovillari il 18 settembre 1810. Si parla anche di Orsomarso. È utile ricordare che de Tavel non è un turista. È ufficiale di un esercito occupante. Le sue “annotazioni risentite, che spesso sanno di razzismo preconcetto, sembrano anche ignorare le ragioni a monte di quella realtà. Ma non nascondono la vera natura di una “sollevazione di massa” né le misure adottate dai francesi: esecuzioni sommarie, inermi abitanti passati “a fil di spada”,  saccheggi, villaggi incendiati, violenze. (Carlino)

Castrovillari, 18 settembre 1810

Parte del circondario di Castrovillari, all’ingresso della Calabria, era in piena insurrezione quando giungemmo in questa città. Gli abitanti dei villaggi intorno al Campotenese intercettavano le nostre comunicazioni con la capitale e i convogli di denaro diretti al campo correvano costantemente il rischio di essere rapinati.

Il comandante del nostro battaglione, nominato comandante generale del distretto, aveva l’ordine di occupare i passi del Campotenese con delle postazioni trincerate e di impiegare tutti i mezzi per sottomettere la popolazione insorta. Questa operazione presentava delle grandi difficoltà per la natura dei luoghi e per il carattere selvaggio degli abitanti, incredibilmente feroci e ignoranti. Inoltre noi non conoscevamo assolutamente questa parte della Calabria e il battaglione, notevolmente assottigliato per le malattie e per i distaccamenti già forniti, non aveva più di trecentocinquanta uomini disponibili.

Dopo qualche giorno di riposo partimmo per Mormanno, un paese popoloso, che a causa della agiatezza dei suoi abitanti non aveva osato levarsi completamente la maschera (1). Vi entrammo senza trovare resistenza. Ma durante la notte tre soldati, allontanatisi imprudentemente dalla chiesa dove erano accasermati, furono massacrati a colpi di pugnale, episodio che indicava chiaramente le cattive disposizioni degli abitanti nei nostri confronti. Il comandante fece arrestare subito il sindaco, gli assessori e quattro dei principali proprietari, che non vollero, o non poterono, consegnarci i responsabili degli omicidi. Bisognò accontentarsi di tenerli in ostaggio per farli rispondere delle azioni dei loro cittadini e di farci dare, sotto la loro responsabilità, guide sicure per poter percorrere la zona.

Dopo aver lasciato un distaccamento, che si trincerò in un convento per custodire gli ostaggi e per conservarci un luogo dove ritirarci in caso di necessità, partimmo per raggiungere i paesi insorti. Attraversammo delle montagne terribili, valli profonde dove, a ogni passo, c’era da temere un’imboscata, e ciò rallentava la nostra marcia essendo continuamente costretti a esplorare la strada. Nei miserabili villaggi che attraversammo erano rimasti solo i vecchi, le donne e i malati. Tutti fuggivano non appena ci scorgevano. Ma dove andavano a rifugiarsi? Era importante saperlo per garantirsi da un attacco improvviso. Alcune pattuglie, inviate in avanscoperta per bloccare i primi contadini che avessero incontrato, tornarono con due persone, veri e propri selvaggi, di cui a stento si capiva il dialetto. Con molte difficoltà e con la minaccia di fucilarli, apprendemmo che un consistente numero di insorti ci aspettava in una gola che eravamo obbligati ad attraversare per continuare la nostra operazione.

Partimmo immediatamente nella speranza di sorprenderli, facendo grandi deviazioni attraverso boschi impenetrabili, e arrivammo, senza essere scoperti, in un punto che dominava la gola dove erano appostati gli insorti. Ci avvicinammo con estrema prudenza. Uscendo da un fittissimo bosco, scorgemmo una moltitudine di contadini sdraiati tranquillamente, senza alcuna vigilanza. La maggior parte dormiva. Svegliati bruscamente dai colpi di fucile, si diedero alla fuga lasciando a terra numerosi morti e feriti. Li inseguimmo, baionette alla schiena, fino a un precipizio in fondo al quale si trova il villaggio di Orsomarso.

È difficile imbattersi in un villaggio come questo, situato in una posizione orribile e nello stesso tempo straordinaria. Completamente circondato da alte montagne che si levano a picco come muraglie, sembra di essere nel fondo di un pozzo. Vi si scende mediante una rampa scoscesa, che segue le sinuosità di un torrente che precipita fragorosamente a valle formando delle belle cascate. Il torrente attraversa il villaggio, ne esce da uno strettissimo passaggio tra le rocce e va a bagnare una campagna estremamente ridente e ben coltivata, che offre uno stridente contrasto con l’orrore che ispira questo bruttissimo paese, dove pare impossibile che degli uomini abbiano potuto fissare la propria dimora. Il sentiero che costeggia il torrente fino all’uscita del villaggio è scavato nella roccia, ed è impossibile incamminarvisi senza pericolo se non lo si conosce perfettamente.

Dopo aver fatto presidiare l’ingresso principale di quest’orribile buco da un distaccamento attestato sulla sola montagna che si potesse occupare, ma purtroppo un poco lontana, scendemmo a Orsomarso per cercare dei viveri, senza minimamente immaginare che quell’accozzaglia di contadini fuggiaschi potesse ricomparire nella giornata. Trovammo il paese completamente deserto. Tutto testimoniava la fuga precipitosa dei suoi abitanti. La maggior parte delle case erano state lasciate aperte e questo ci consentì di rifornirci di viveri di ogni genere.

Mentre eravamo impegnati ad accumulare provviste sufficienti per alcuni giorni, udimmo degli spari e, contemporaneamente, su tutte le montagne circostanti comparve una moltitudine di uomini armati. Il distaccamento disposto all’imbocco della gola era stato attaccato e obbligato ad abbandonare la sua posizione. Molti soldati erano stati uccisi e feriti. Uditi gli spari, cominciammo a risalire il pendio per correre in suo aiuto. Ma il distaccamento era già stato costretto a ripiegare precipitosamente verso il villaggio. I contadini che lo inseguivano si piazzarono in massa davanti a noi in maniera da chiuderci ogni via d’uscita da quel luogo infido, dove eravamo stati cacciati senza poter sperare di aprirci un passaggio da quella parte. Il reparto allora si portò verso un’altra rampa, ma fu accolto da una scarica di pietre e da massi enormi lasciati cadere dall’alto della montagna, e che schiacciarono due guastatori e un tamburino sotto i miei occhi. Vedendo che non potevamo forzare questo passaggio senza andare incontro a una sicura disfatta, ritornammo sui nostri passi con la ferma determinazione di tentare il tutto per tutto per uscire da questa situazione spaventosa. Più tempo perdevamo, più la situazione diventava critica. Le fucilate ci arrivavano da tutte le parti e si udivano le urla acute delle donne che, simili a furie, aspettavano solo il momento di nutrirsi del nostro sangue. Immediatamente i tamburi batterono la carica e ci precipitammo verso quell’uscita fatale con la forza della disperazione. La compagnia di volteggiatori attraversò il torrente sotto una pioggia di colpi e si arrampicò con estrema difficoltà su una montagna scoscesa, dalla quale il fuoco degli insorti ci fece subire perdite considerevoli. Infine questi eroici soldati riuscirono ad aprire un passaggio: un’impresa che solo la forza della disperazione poteva rendere possibile.

Appena giungemmo sulle alture, i soldati, inferociti, inseguirono con accanimento gli insorti che fuggirono per ogni parte. Un gruppo, costretto sulla cima di una roccia, fu massacrato o morì gettandosi nel precipizio. Questa disgraziata operazione, generata dalla necessità di procurarci viveri di cui eravamo completamente privi, ci costò più di sessanta uomini. Molti di noi riportarono ferite leggere, contusioni e abiti sforacchiati dai proiettili. Ma le perdite subite dai ribelli furono molto più considerevoli e ci fecero apparire ai loro occhi molto temibili, esempio che l’eroismo dei francesi non conosce ostacoli e può trarli d’impaccio da ogni situazione difficile.

Marciammo parte della notte per ritornare a Mormanno prima che quei contadini, i più risoluti che avessimo mai incontrato in Calabria, potessero tagliarci la strada. Entrammo in paese all’alba, al suono del tamburo. La nostra comparsa improvvisa – dal momento che si era sparsa la voce di una nostra completa disfatta – fu come un colpo di fulmine per gli abitanti, i quali, temendo delle ritorsioni, che in qualche misura eravamo autorizzati a compiere nella zona, ebbero l’audacia e l’insolenza di mandare una delegazione per complimentarsi con noi del felice ritorno.

Poiché l’insurrezione diventava pericolosa, il comandante inviò dei rapporti circostanziati per far conoscere la situazione e chiedere dei rinforzi in modo da occupare militarmente i villaggi principali, dal momento che questo è il solo mezzo per ridurre la popolazione all’ubbidienza. Nell’attesa volle fare un  tentativo contro un paesino, Laino, un altro focolaio della rivolta.

L’operazione richiedeva la massima segretezza e delle guide che riuscimmo a ottenere con l’astuzia e che impiegammo con la forza. Partimmo in una notte molto buia osservando il massimo silenzio.

Laino si trova a dodici miglia da Mormanno. Arrivando prima che facesse giorno si poteva sperare di sorprendervi una parte degli insorti, o almeno di catturare come ostaggi le famiglie di alcuni individui che avevano un ruolo importante nella rivolta. Nonostante tutte le misure adottate per cercare di nascondere la nostra marcia, gli abitanti ne vennero a conoscenza e trovammo il villaggio completamente deserto. Poiché altri tentativi con le poche forze che avevamo, e in una zona in cui tutta la popolazione era insorta, potevamo solo metterci in seria difficoltà, il comandante decise di lasciare una guarnigione di cento uomini a Mormanno, paese che era indispensabile occupare allo scopo di facilitare future iniziative, e di far rientrare il battaglione a Castrovillari in attesa dei rinforzi sollecitati con insistenza.

L’audacia degli insorti, accresciuta dalla nostra ritirata, si diresse allora contro la compagnia che occupava la batteria di Cirella. Non potendola espugnare per la sua posizione ben trincerata, si installarono in un villaggio che forniva le razioni di viveri

alle truppe. Il capitano che comandava la compagnia fece una sortita per cacciarli via, ma ferito a una gamba, con molti soldati feriti ed uccisi, fu costretto a ordinare una veloce ritirata per paura di soccombere. Bloccato da ogni parte, lontano da Castrovillari

quaranta miglia, senza alcuna possibilità di comunicare la sua difficilissima situazione, si trovava in uno stato veramente critico. Fortunatamente ai piedi della batteria c’erano alcune barche da pesca che aiutarono le truppe a sopravvivere.

Eravamo completamente all’oscuro di ciò che succedeva in quel posto, quando, il 10 settembre, di pomeriggio, vidi entrare da me un caporale di quella compagnia travestito da pescatore, e che era arrivato miracolosamente dopo aver vagato per due giorni e due notti tra montagne e foreste. Ascoltato il suo racconto, giudicammo che non c’era tempo da perdere. Partimmo immediatamente e arrivammo l’indomani sera a Cirella senza incontrare ostacoli. Qui trovammo i soldati in uno stato di estrema indigenza e il capitano seriamente malato per la ferita che non si era potuto curare. La sua compagnia ebbe il cambio, e noi, dopo una sosta di due giorni per far approntare le provviste necessaire alla guarnigione del forte, ritornammo a Castrovillari.

Mentre eravamo in marcia, due uomini coperti di stracci, e il cui volto denotava un’espressione di infelicità e di sofferenza, sbucarono davanti a noi dal fitto di un bosco e ci corsero incontro gridando con voce commossa: «Francesi! Francesi!». Erano due granatieri del battaglione che, feriti leggermente nella nostra sortita di Orsomarso, non avendo potuto scalare la montagna attraverso la quale ci ritirammo, furono catturati dagli insorti.

Testimoni dell’orribile massacro dei loro sventurati compagni, dovevano la loro vita al loro bell’aspetto e alla loro robustezza. Furono infatti utilizzati come bestie da soma per trasportare in portantina la donna e i bagagli di uno dei capi della rivolta. Questi li faceva massacrare a colpi di frusta, come asini, e durante la notte li legava agli alberi. Inoltre, su di loro incombeva la tremenda minaccia di essere fucilati da un momento all’altro. Saputo del nostro arrivo, i due sventurati avevano compiuto degli sforzi sovrumani per liberarsi e raggiungerci.

Dalle informazioni che ci diedero, apprendemmo che gli insorti erano numerosi, e manovrati dagli inglesi che gli avevano fornito armi, munizioni e denaro.

Non ci sarà mai pace stabile in questo regno fin quando gli ispiratori di queste rivolte occuperanno la Sicilia. Questo grande problema non tarderà a essere risolto. Aspettiamo solo le prime raffiche di vento dell’equinozio per attraversare lo stretto. E se il nostro battaglione non avrà l’onore di sbarcare tra i primi sulle coste della Sicilia, speriamo di arrivare in tempo per dare la scalata ai bastioni di Siracusa

NOTE

  1. Quest’episodio è riportato da L. M. GRECO, op. cit., II, p. 352 e segg. Che afferma che il comandante del battaglione si chiamava Farnet e che le truppe francesi ammontavano a cinquecento uomini.

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