Nonno Salvatore e la storia di Garibaldo

Nonno Salvatore

 

Ero ragazzo, non avevo ancora dieci anni, ed era il tempo della settimana santa.  A casa, per strada, in chiesa si “sentiva” l’evento religioso, si leggeva sul volto delle persone, nei loro gesti. Le donne si davano cura nel preparare u lavuru da portare in chiesa per abbellire u sabburcu; gli uomini si erano attrezzati di rami di ulivo per la domenica delle palme; il suono delle carrozze dei ragazzi fungeva da colonna sonora del racconto religioso.

Me ne stavo a letto con la febbre dai nonni paterni, nella casa sopra la forgia di Vincenzo. Medici e medicine scarseggiavano, ci si arrangiava come si poteva. Il venerdì santo nonno Salvatore volle tenermi compagnia, mentre nonna Lucia ed i miei genitori andarono in Chiesa per la Via crucis. Se ne stava seduto vicino la porta, che dava sulla strada al Palazzotto. Le persone che passavano lo salutavano: “Zi’ Salvatu’, nu benisi a chiesa?”. “C’è u guagliunu  ‘ntu litto ca freva.”

Quando intorno si fece silenzio, si girò verso di me e mi chiese se mi faceva piacere sentire una storia. Eccola.

 

 

Tanti anni fa i piemontesi arrivarono in Calabria come le cavallette nelle piaghe d’Egitto. A capo c’era un mangiapreti, biondo, con gli occhi azzurri. Sembrava nato a cavallo, tanto era bravo a galoppare e fare la guerra.  Baroni e principi lo ricevevano in pompa magna, per farselo amico ed avere mano libera nell’arraffare terre demaniali e della chiesa. Questo ceffo, di nome Garibaldo, passava di città in città, tra sfilate, pranzi e balli, perchè l’esercito di Franceschiello s’era sciolto come neve al sole. La truppa era formata da una banda di scalcagnati con camicia rossastra. Parlavano tante lingue. Non sembrava un esercito serio.

Arrivò dalle parti nostre durante la settimana santa. La mattina del venerdì si sparse la voce che Garibaldo era alla Marina e saliva, con tutti i suoi compari, verso il paese per andare a Mormanno, e di là proseguire per Napoli. La paura spinse molti a tornare a casa. Il prete non sapeva cosa fare.  Ogni tanto si vedevano gruppetti di donne che si confidavano preoccupazioni, ansie, timori, per l’arrivo di questo senza Dio.

Salì dal convento di San Francesco, per la strada di Monte Prucchio. Arrivato in piazza, si sistemò di fronte alla chiesa attorniato dai suoi generali, mentre i soldati si sdraiarono per riposare. Ogni tanto prendeva in giro le donne che andavano in chiesa per i riti del venerdì santo.

Verso mezzogiorno si fece portare il pranzo. Glielo servirono in un cantaro (simile a quello che si usava per i bisogni corporali) pieno di carne. Mangiava ridendo, per scandalizzare i paesani e farsi beffa di quello che avveniva in chiesa. Beveva come un turco. 

Salito a cavallo, riprese la marcia per Mormanno dalla Sciodda, con il cantaro ancora in mano. Mentre camminava, con tutta quella ciurmaglia al seguito, sbeffeggiava le persone che incontrava: “Volete favorire? Perché non cammarate con me? Non è peccato. La carne è squisita.”

Arrivato u Primo Chiuppo, alla grande trahjera subito dopo Santo Linardo, il suo cavallo fu preso da una forza misteriosa, che lo faceva contorcere, scalciare e darsi al galoppo. Garibaldo cadde malamente, come un sacco di patate. Sbatté con la testa su un sasso e rimase stecchito. Subito si diffuse lo spavento. Cercarono di rianimarlo, soccorrerlo, medicarlo, per fermare il sangue che usciva a rivoli. Niente. Piangevano, smarriti come bambini. Caricarono il corpo del Capo su un mulo, fermandolo con delle funi. E ripresero il viaggio, ammutoliti.

Del cavallo di Garibaldo, scomparso nelle montagne, nessuno ha saputo più niente.

Quando la notizia arrivò in paese, qualcuno corse in chiesa a raccontarla. Il prete fece fare silenzio e dal pulpito disse:

“La mano di Dio è potente e travolge i suoi nemici.”

Questo fatto strano fece cadere il paese nella paura. Tutti rimasero in chiesa fino a notte: si sentivano più sicuri e protetti nella casa di Dio.

 

 

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