
Leonida Rèpaci parla della Calabria del dopoguerra. È un brano dolente. Utile. Spinge a ragionare sulla vita travagliata di questa terra, che, malgrado il passare degli anni, non sa assumere comportamenti virtuosi, per garantire una vita civile alla sua gente.
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La fame che conosco meglio è quella che prospera in Calabria. Sì, c’è ancora, anche se dignitosamente nascosta come una sventura di famiglia, c’è, eterna, nella sua carica di febbre permanente da denutrizione, c’è nel bisogno di silenzio, di stare appartati, nel senso del lazzaretto che crea intorno a sé, c’è, e resiste anche al miglioramento di certe condizioni generali, alla Legge Speciale, alla Cassa, alle provvidenze di Fanfani, resiste, anche se il vino è leggermente migliorato di prezzo, e gli uomini a giornata e le cogliolive sono assunti a qualunque prezzo, dato l’abbandono delle terre da parte della gioventù. La fame non si placa perché i giornalieri son pagati 2500 lire e le cogliolive 1200 più la spesa. Né la sete si estingue perché si progettano gli acquedotti, né il disfacimento geologico si arresta per la costruzione di alzate di cemento. La fame diventa a un certo punto una categoria mentale, una paura ancestrale, un’ossessione storica. Tutte le volte che ritorno in Calabria provo l’impressione che debba succedere qualche cosa di enorme, come un atto di violenza combinata tra la collera della terra abbandonata senza difesa alla furia degli elementi, e la collera della povera gente, stanca di esser tradita nella sua attesa, arrivata al limite dell’umana sopportazione.
Fame calabrese in tre momenti da me colti negli ultimi anni:
1. Mi racconta una giovane contadina che, mentre stava mangiando il suo pane, le era arrivata la notizia della morte del fidanzato emigrato in Australia. Per fortuna si trattava di un falso allarme, non era morto il fidanzato, ma un cugino di lui che portava lo stesso nome e cognome. Per mettermi a parte dell’impressione che la notizia le aveva fatto, la contadina mi disse: – Mali pe’ mia, mi catti u pani. – Non le aveva spezzato il cuore la mala nova, le aveva fatto cadere il pane di mano, quel pane che è la cosa più sudata del contadino. Non sa quel pane di fame insaziata, di ossessione storica?
2. La fame non è vergogna che colpisce solo chi la provoca e favorisce, ma anche chi la tollera. Mi hanno segnalato un vecchio terrazzano abbandonato dai figli che fu, un giorno, visto mentre mascherava, in un involto, un pane che non c’era. Egli metteva dei sassi nel cencio nero per far vedere che anche lui aveva il suo pezzo di pane da portare sul lavoro. Questa sì è fame che suona offesa alla dignità della vita. Malaparte parla di fame sinonimo di speranza. Ma a me sembra che qui ci sia uno squallore col quale la speranza non ha nulla da spartire.
3. Recentemente mi accadde di regalare ad una bambina di terrazzani, di circa sei anni, incontrata per caso nella farmacia di un mio parente, un grosso gianduiotto che avevo in tasca. La piccina prese l’oggetto avvolto nella stagnola d’argento senza alcuna gioia. – Sei contenta? – le chiesi. E lei niente, neppure una parola. – Non ti piace, forse? – E lei muta, come assorta. Allora le ripresi il gianduiotto, lo svestii della stagnola e glielo ridiedi, simile al carapace di un benevolo scarabeo. La bambina a questo punto ficcò le unghine nel cioccolatino, standosene a guardare curiosa le gocce di liquore che da quello si versavano per terra. Non le passava neppure per la testa che si potesse mettere in bocca. Non sapeva insomma che cosa fosse un cioccolatino, non lo aveva mai visto in una vetrina, non ne aveva mai sentito parlare. Per lei il gianduiotto era quella cosa nera in cui si ficcano le unghie per veder colare un’acqua nascosta, e niente altro. Quando, guidata dalla mia mano, si trovò il cioccolatino sulle labbra, la piccola mi guardò con un senso di enorme e gradita sorpresa per il trabocchetto in cui l’avevo fatta cadere. Si aprì tutta in un sorriso un po’ pallido di bambola che apre gli occhi a capriccio di chi la rizza in piedi, poi fuggì via saltellando come un passerotto. La vidi a distanza che si leccava le dita ancora intrise di liquore.
Fame, cara ombra di Malaparte, fame di quella nera, a lutto stretto. È facile vedere, alle spalle di quella bambina, catene di generazioni negate a qualunque conforto, a qualunque misericordia. – II contadino non è prossimo – ho spesso sentito dire da qualche benpensante in Calabria. Non fa parte, cioè, il contadino, di quel prossimo che bisognerebbe amare come noi stessi, secondo il precetto evangelico. Per lui anche il rintocco funebre è sprecato, giacché il terrazzano è nessuno, nuddhu.
Ora i figli, i nipoti di questi vecchi «nessuno», se ne vanno lontano ad amare il loro paese natale da altre rive. Le fasce operaie intorno a Milano Torino Genova brulicano di questi spaesati, i quali votano immancabilmente comunista spostando sempre più a sinistra l’asse politico del triangolo industriale. L’unità tra operai e contadini, preconizzata da Gramsci, eccola realizzata in maniera del tutto imprevedibile: nei luoghi di immigrazione interna e nella persona dell’operaio-bracciante venuto su dal Sud a cercar lavoro.
Da CALABRIA GRANDE E AMARA, di Leonida Rèpaci – Rubbettino
FOTO: Rete