La magia nell’antico Egitto

Stele di Metternich, o Stele Magica, datata intorno al 360-343 a.C. Risale al regno di Nectanebo II. Nella parte sottostante vi sono incisi tredici incantesimi per proteggere da morsi e ferite velenose

È naturale che in questo ricomporsi di un equilibrio fra i valori sociali e i valori personali dell’esperienza religiosa la pratica della magia abbia la sua parte. Ne avevamo intravisto l’esistenza già nei Testi delle Piramidi in formule contro scorpioni e serpenti: e tipica della magia egiziana resterà, per tutta l’età classica, questa funzione profilattica o curativa. Medici e maghi agiscono in concordia, e si appoggiano entrambi alla struttura organizzativa del tempio. A Kahun abbiamo indicato la presenza di testi medici e veterinari (addirittura una ricetta per curare i pesci: probabilmente sacri), e fra i frammenti medici c’è almeno una formula magica. Una interessante raccolta di formule «per la madre e per il bambino», come è chiamata dal suo contenuto, dà un’idea assai precisa di come agisca il mago, personificando i mali che deve combattere e identificando sé e il suo protetto con divinità capaci di averne ragione: «Sguscia via, o tu Asiatica che vieni per le montagne! o tu Nubiana che vieni per il deserto! Sei tu una schiava? Va’ con il vomito. Sei tu una dama? Va’ con la sua orina. Va’ con il muco del suo naso! Va’ con il sudore delle sue membra! Le mie due mani sono su questo bambino. Le due mani di Isi sono su di lui, così come essa pose le sue due mani su suo figlio Horo».

Placchetta con sette occhi di Horo, potente amuleto protettivo, del. III-II millennio a. C., Museo del Louvre, Parigi.

Le malattie sono identificate come straniere, sono esorcizzate con un mito cui si allude in chiusura e che ben conosciamo e che è paradigmatico nei testi magici. Queste personificazioni uniscono spesso la magia alla religione ufficiale: ma la sua autonoma potenza è ben descritta in una formula dei Testi dei Sarcofago in cui il morto così conclude: «Prostratevi davanti a me, o tori di Nut! Venite calzati di sandali nella mia grande dignità di signore dei ka, erede di Ra Atum. Io sono giunto per prendere il mio posto e assumere la mia dignità. A me appartiene tutto dapprima che voi foste esistiti, o Dei, e voi siete calati come ultimi. Io sono Magia!”

Magia e preveggenza

In questo ambiente che vede i rapporti con la divinità, o meglio con gli dei, tanto legati ai fatti personali dei singoli, è solo naturale che il più antico dei modi in cui tale possibilità di chiedere interventi specifici e precisi favori si era manifestato – nelle pratiche della magia – ora acquisti un nuovo vigore. Le raccolte magiche ci mostrano vari modelli di possibili formulazioni. Ci sono veri e propri inni alla divinità (alcuni li ritroviamo tal quali in contesti rituali ufficiali) da recitarsi con particolari accorgimenti; ci sono racconti mitici che prefigurano il caso specifico di cui il mago deve occuparsi, e che alludono spesso a miti che non conosciamo (e ce le saranno di fittizi) e che dovrebbero valere come modello di un felice esito dello scongiuro; ci sono gli impersonamenti nel mago del dio che deve intervenire sicché il suo potere ne viene aumentato a dismisura; ci sono le minacce del mago agli dei che non accettino la richiesta (resteranno senza offerte; il mondo sarà capovolto); ci sono infine formule che valgono proprio in quanto tali, alcune in lingue straniere (di una in particolare si dice che è nella lingua dei Cretesi), altre verisimilmente pure combinazioni di suoni – e ci sono, infine, gli amuleti numerosissimi e di materiali talvolta specificamente designati dai testi che ne parlano, altre volte nelle confezioni più svariate. Ce ne sono che hanno una valenza particolare, ma il più diffuso di tutti l’occhio ugat, copre tutto lo spettro delle necessita umane, e ricorda il mito dell’occhio di Horo che è stato cavato da Seth e poi restituito come «sano» (questo e il significato della parola egiziana) dal dio Thot – e paradigma perciò sicurissimo di ogni salvamento.

Due statuette di esecrazione, XII dinastia, Haaretz Museum, Tei Aviv. Le due statuette raffigurano nemici sui quali si inscrivono formule magiche per renderli inoffensivi.

Con la polarità che spesso accompagna l’esperienza e il sentire religioso, proprio mentre così si moltiplicano le possibilità di intervenire sulla storia di ognuno facendo, con le preghiere e gli scongiuri, intervenire gli dei nello svolgimento delle cose, comincia a divenir presente nella coscienza l’idea di un destino, impersonato in un dio Shai. In un racconto di quest’epoca alla nascita di un figlio di re presenziano le «Sette Hathor» (così come le divinità erano intervenute alla nascita dei re futuri nella storia del papiro Westcar o nelle teogamie di Deir el Bahari e di Luqsor): ma questa volta vengono per «stabilirgli il destino»: «Morrà per il coccodrillo, oppure per il serpente, o egualmente per il cane». I tre animali appaiono poi nel fantasioso racconto delle avventure del giovane principe – ma la fine manca e non sappiamo se il destino si compia o venga scongiurato con qualche accorgimento.

Nella pratica mentalità egiziana, ci sono modi per conoscere questo futuro già reale in potenza, e perciò in certo modo dominabile da chi lo conosca: sono i Libri dei Sogni, estremamente metodici (e che sfoceranno negli Oneirocritici) e Calendari dei Giorni Fasti e Nefasti con indicazioni specifiche per le varie parti di ogni giorno. Da «consigli di Dio» quali i sogni appaiono nell’Insegnamento per Merikara che li dà come prova della provvidenza e dell’amore di dio per gli uomini, divengono ora il campo per una speculazione specialistica; e se spesso le qualità dei giorni fasti o nefasti derivano da fatti mitici che, all’origine del tempo, in quel giorno hanno avuto luogo, il senso religioso è certo andato perso nella concretezza del manuale da applicarsi.

Da “STORIA DELLE RELIGIONI” – La Biblioteca di Repubblica

Foto: Rete

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