MEDIOEVO – L’universo e la Terra

Frantumato dai dialetti, riunificato dal latino, lo spazio dell’individuo occidentale del X o XI secolo sembra fosse, a un tempo, ignorato e sentito in maniera acuta.

Lo spazio vuoi dire tante cose. Oggi, per esempio, la parola ci ricorda sia le distese intersiderali sia lo «spazio Cardin»… Intorno all’anno mille era piuttosto inconsueto e l’idea che se ne aveva non era particolarmente chiara.

L’universo

Lo spazio illimitato — o curvo — degli astronomi non era neppure concepibile. Una sfera con la terra al centro: era quella la nozione più vasta che si avesse allora dell’universo ed è inutile dire come fosse riservata a una ristretta cerchia intellettuale: insegnanti e allievi di certe scuole episcopali. Negli anni 980, Gerberto d’Aurillac, «maestro», ovvero direttore, della scuola di Reims, che sarebbe finito papa con il nome di Silvestre II, concretizzava la nozione di universo tramite una sfera piena, sulla quale aveva annotato i punti in cui si levavano o tramontavano gli astri, con varie «sfere armillari», formate cioè da cerchi raccolti insieme, che ne mostravano gli itinerari celesti, per finire con una sfera concava munita di vari tubi, uno dei quali permetteva di individuare i poli, mentre gli altri giravano intorno al primo, orientando e fissando lo sguardo su un punto ben preciso. È quanto ci riferisce Richer, fervido discepolo di Gerberto. Non pretendiamo di capire tutto di questa terza sfera, ma riconduciamo il tubo che consente di individuare i poli a quello di cui lo vedremo più tardi servirsi per puntare in cielo la stella polare e orientare in tal modo un quadrante solare.

A ogni modo, sappiamo che fino a Copernico, il cui De revolutionibus orbium caelestium (Sulle rivoluzioni delle orbite celesti) sarebbe apparso nel 1543, si è pensato che la terra occupasse il centro del mondo fatto di sfere concentriche, ciascuna delle quali corrispondeva all’orbita apparente del sole, della luna, o di uno dei pianeti, mentre l’ultima sorreggeva l’insieme delle stelle fisse. È così, pressappoco, che riusciamo a immaginarci l’universo degli scienziati dell’anno mille.

Mappa Mundi di Hereford, 1300 circa, Cattedrale di Hereford, Inghilterra. Complessa mappa T-O con Gerusalemme al centro e l’est sulla parte superiore.

La terra

Si noterà subito come in tale concezione anche la terra sia sferica. Contrariamente a una credenza assai diffusa, questa acquisizione della scienza greca non era caduta nell’oblio generale nel Medioevo. Tuttavia, pur restando in piedi nel pensiero degli astronomi, la sfericità della terra non trovava espressione nelle rappresentazioni dei geografi.

Del resto, si possono chiamare geografi gli artefici di quei mappamondi (mappa mundi, carta in piano e non globo) che presumono di raffigurare la terra con un disco diviso in tre da una T?

Il semicerchio delimitato dall’asta orizzontale è l’Asia; i due quarti di cerchio sono: l’Europa, a sinistra, e l’Africa, a destra; il tratto verticale si ritiene rappresenti il Mediterraneo, la barra il Tanai (il Don) e il Nilo… Al punto di incontro sta Gerusalemme, centro del mondo. I «mappamondi in T-O», come li chiamano gli storici della cartografia, illustrano ritualmente, nei manoscritti, certi passi di opere ritrascritte a più riprese, come il De natura rerum (Sulla natura delle cose) e le Etymologiae  (Etimologie) di Isidoro di Siviglia, il De ratione computanti (Sulla ragione nel contare) di Beda, il De bello lugurthino (Sulla guerra di Giugurta) di Sallustio.

Ma un passo delle storie del nostro ineludibile Rodolfo ne rivela il carattere di schema teologico. Osservando come il cristianesimo abbia conquistato «le regioni dell’Aquilone [il Nord] e dell’Occidente» e non «i centri orientali e meridionali del mondo», egli soggiunse: «Del resto, è quanto in perfetta verità presagiva la posizione della croce del Signore […]: mentre alle spalle del Crocifisso c’era l’Oriente con le sue sanguinarie popolazioni, davanti ai suoi occhi si estendeva l’Occidente, pronto a essere inondato dalla luce della fede; e, del pari, la sua destra onnipossente, aperta nel gesto della misericordia, si tendeva verso il Settentrione, che conobbe la dolcezza di credere nella parola santa, mentre la sua sinistra era riservata al Mezzogiorno, che pullulava di popoli barbari».

Il testo riportato potrebbe ben essere illustrato da un mappamondo in T-O, a molto maggior ragione di quelli che normalmente vi si ricollegano.

Mappae mundi in codici del Commentario all’Apocalisse del monaco Beato

C’erano, naturalmente, varianti rispetto a questo schema e, a partire dalle vicinanze dell’anno mille, esistono rappresentazioni meno sommarie della terra. Quella che si ritrova in un manoscritto del commento all’Apocalisse dovuto al monaco Beato, redatto dopo il 1027, offre tracce che servono ad accostarsi in maniera un po’ più ravvicinata alla realtà. Altre, più tarde, possono essere confrontate con questa.

Ecco alcuni elementi per avere un’idea della visione d’insieme che doveva probabilmente farsi del nostro pianeta qualche monaco colto; quanto all’idea che poteva avere dei paesi, si hanno campioni rarissimi. Eccone uno, sempre di Rodolfo: «Secondo la maggior parte di quanti si occupano della configurazione del globo, il territorio della Gallia rientrerebbe in uno spazio quadrato; ora, benché dai monti Rifei ai confini della Spagna abbia a sinistra il mare Oceano e a destra sia costeggiata dalla catena delle Alpi, la sua forma oblunga oltrepassa i limiti della figura del quadrato. L’estremità inferiore, dappertutto del resto la meno apprezzabile, prende il nome di Corno della Gallia. La sua capitale è Rennes: da tempo è abitata dalla popolazione dei bretoni, che inizialmente ebbero come unica forma di ricchezza l’esenzione dalle imposte e latte in abbondanza. Completamente estranei a ogni civiltà, essi hanno costumi incolti, sono pronti alla collera e farfugliano un insipido dialetto».

Mappae mundi in codici del Commentario all’Apocalisse del monaco Beato

Lasciamo pure da parte quest’osservazione di «geografia antropica», che offre un saggio del legame d’affetto che probabilmente nutrivano reciprocamente le varie etnie della «Gallia», ma non risparmiamoci il commento delle altre affermazioni di un testo così sorprendente. In primo luogo, il termine «globo» — con cui si è tradotto in mancanza di meglio il termine latino orbis — non deve lasciare pensare che Rodolfo sapesse che la terra era sferica: orbis significa anche cerchio; e il suo insistere sull’orientamento della croce di Cristo si può benissimo riferire ai mappamondi in T-O, tanto da far pensare che abbia impiegato il termine in quel senso. I monti Rifei che, nel contesto, segnano il confine della Francia contrapposto a quello rappresentato dai Pirenei (le «frontiere della Spagna»), pongono un duplice ordine di problemi: in primo luogo, il nome normalmente indica monti posti a nord della Scozia, cioè, grosso modo, dell’attuale Russia; inoltre, il confine settentrionale della Gallia è assolutamente privo di monti. Per poter dire che la Gallia ha alla propria sinistra l’Oceano e le Alpi alla destra occorre orientare la carta con il Nord in alto, come si fa ora, mentre i mappamondi collocano il Nord a sinistra. Ma in tal caso il «Corno

della Gallia» — termine da cui sarebbe derivato «Cornovaglia» — che costituisce l’estremità inferiore di questa Gallia oblunga, ne rappresenterebbe l’estremo Sud, mentre si tratta chiaramente della Britannia… Ce n’è a sufficienza per valutare la lucidità in materia geografica del nostro monaco il quale, altrove, colloca il Vesuvio «in terra africana», fa dell’Africa il teatro di guerre tra Saraceni e cristiani, guerre che possono essersi svolte solo in Spagna e, a volte, assegna alla Lorena il nome di Rezia, che è il nome di una regione delle Alpi.

Rodolfo era, dunque, particolarmente scarso in geografia? Mancano strumenti di confronto contemporanei. Ma va fatta un’osservazione che, valida per l’anno mille, si applica in genere al Medioevo: non sembra che la gente sentisse il bisogno di carte geografiche o topografiche. I marinai metteranno a punto, forse durante il XIII secolo, una carta nautica che riproduce con straordinaria precisione il tracciato delle coste del Mediterraneo, costellata dai nomi dei luoghi: l’esemplare più antico che se ne conosca, conservato presso la Biblioteca Nazionale, risale al 1300 circa (si tratta di quelli che si sogliono chiamare i portolani); per la terraferma, tuttavia, non si è trovato niente di analogo. E i testi non ne fanno mai menzione, tranne per una carta «della terra» e alcune piante di Roma e di Costantinopoli incise su una tavola d’argento e, quindi, sicuramente trasformate prima o poi in danaro, che secondo Eginardo avrebbe posseduto Carlo Magno.

Roma medioevale

Il vuoto e il silenzio stupiscono ancora di più, in quanto nel Medioevo, in particolare nell’anno mille, era altrettanto importante che in altre epoche avere una precisa coscienza della superficie terrestre: era infatti un continuo litigarsela e spartirsela. E la spartizione non era casuale: quando, nell’anno 843, con il trattato di Verdun, Lotario, Luigi il Germanico e Carlo il Calvo spartirono in tre l’Impero di Carlo Magno, si accordarono — come sembra avere dimostrato ai giorni nostri Jacques Pirenne — perché ognuno avesse nella parte a lui assegnata più o meno la stessa quota di boschi, di terre arabili, di vigneti, di città importanti. Non sarebbe concepibile, al giorno d’oggi, una spartizione altrettanto accurata senza un’assidua consultazione di carte molto dettagliate. Ora, nessuno dei testi che richiamano l’elaborazione del trattato vi accenna. Del resto, per tutto il Medioevo, dai polittici carolingi fino alle «confessioni e censimenti» del XV secolo, documenti di valore giuridico hanno descritto in dettaglio, grazie alla lingua, realtà territoriali molto complesse. La nostra principale preoccupazione per riuscire a capirli, oggi, è riportarne i dati sulla carta; nessuno di questi testi, però, fino al XVI secolo, è corredato da una carta o una pianta. Si dovrebbe pensare che la gente dell’epoca possedesse un senso dell’orientamento, una percezione intuitiva e concreta dello spazio circostante, forse anche per un raggio piuttosto ampio, che rendeva superfluo il supporto visivo.

C’era, certo, bisogno di senso dell’orientamento per spostarsi da un posto a un altro senza rischiare di smarrirsi, attraverso sentieri appena tracciati, per boschi fitti, senza alcun cartello stradale e senza bussola, dal momento che tale strumento si conobbe in Occidente soltanto durante il XII secolo.

 

EDMOND POGNON

Da “La vita quotidiana nell’anno mille” – Fabbri Editore

Foto: Rete

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