L’erba di Artemide: l’artemisia

L’artemisia o «amarella» (Artemisia vulgaris) è una pianta lunare, come testimonia anche il suo nome che secondo Plinio deriverebbe da Artemide Ilizia «per il fatto che cura in particolare le malattie delle donne». Ma secondo altri studiosi deriverebbe dall’aggettivo artemés, «sano, in buona salute» o da artemìa, «buona salute».

Lo Pseudo Apuleio in De virtutibus herbarum sostiene che fu Diana a scoprire le prime artemisie, ma sarebbe stato Chirone a insegnarne le virtù terapeutiche. Nel trattato De viridibus herbarum, che risale al IX secolo, Macer Floridius la proclama «herbarum matrem» attribuendole la proprietà di accelerare le mestruazioni, di favorire i parti, d’impedire le false gravidanze, di liberare dal mal della pietra e di contrastare l’azione di qualunque veleno. In effetti è indicata per curare le disfunzioni mestruali, ma anche l’epilessia e il ballo di san Vito, proprietà che già conoscevano gli Antichi, e ha la funzione di cacciare demoni e spiriti, come riferisce lo Pseudo Apuleio.

È considerata una delle erbe di san Giovanni. Nelle campagne si diceva che in quella magica notte solstiziale secernesse sotto le radici un «carbone» capace di preservare dai fulmini come dalla peste e di proteggere chiunque lo avesse raccolto in quelle ore e conservato in casa o attaccato agli abiti. A Roma la si portava sul corpo o sul capo in forma di corona per difendersi dagli spiriti e dagli influssi maligni.

Secondo una leggenda cristiana germogliò nel paradiso terrestre, lungo il sentiero percorso dal serpente, per tentare di ostacolarlo nel suo cammino verso Eva che egli voleva indurre in peccato. «Tale origine» sottolinea Manlio Barberito «comporta conseguenze altrettanto straordinarie. Innanzitutto questa pianta, nata su una strada così carica di destini, nel tentativo di precludere l’uomo dal peccato, origine della morte e di ogni altro male, non poteva non avere potenti riflessi su tutto ciò che riguarda strade, viaggi e cammino dell’uomo, in senso fisico e spirituale.» Per questo motivo un tempo si usava dipingere sulle portiere delle carrozze, specie quelle del servizio pubblico, un’artemisia come apotropaico contro gli incidenti e per un felice viaggio: uso passato poi alle automobili fino al 1930. Aveva inoltre la virtù, se tenuta in mano, di permettere a un viaggiatore di non avvertire la stanchezza anche nelle condizioni più disagiate, come riferiva l’Herbarium Apulei.

Giacché le sue foglie erano sempre volte a nord, simbolo del costante orientamento verso il divino, si diceva che la piantina fosse spiritualmente e materialmente propizia; e come si opponeva alle opere del Tentatore, così difendeva a livello materiale dal fulmine se se ne metteva un mazzetto dietro l’uscio. Ma favoriva anche l’incorruttibilità delle cose: lo testimonia l’antichissimo uso di mescolare all’inchiostro succo di artemisia affinché la carta fosse preservata dalle tarme.

Sarebbe dotata di virtù profetiche. A Bologna, secondo quanto riferisce Angelo De Gubernatis, si facevano scivolare delle foglie di artemisia sotto il cuscino del malato, facendo in modo che egli non se ne accorgesse. Se si fosse addormentato subito, la guarigione sarebbe stata prossima; in caso contrario sarebbe morto.

In Sicilia alla vigilia dell’Ascensione, le donne di Avola, una cittadina in provincia di Siracusa, costruivano delle croci con rametti della pianticella e le mettevano sotto i tetti delle case, persuase che durante la notte Gesù, risalendo in cielo, le avrebbe benedette. Le croci venivano poi collocate nelle stalle poiché avrebbero avuto la virtù di calmare gli animali indomabili.

 

ALFREDO CATTABIANI

Da “Florario” – Mondadori

Foto: Rete

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