L’Italia della Democrazia cristiana

 

Durante gli anni ’50 la Dc riuscì a costruirsi un effettivo consenso in molti settori significativi della società italiana, un consenso fondato su basi sia materiali sia ideologiche. Va ricordato infatti come per buona parte di quel decennio quasi tutti gli aspetti della politica internazionale venissero ridotti a una scelta secca di schieramento prò o contro un certo campo.

De Gasperi aveva scelto l’America ma, cosa assai più importante, l’America aveva scelto l’Italia; gli schemi ideologici della guerra fredda e l’anticomunismo da crociata contribuirono in misura rilevante a formare l’opinione pubblica italiana di quel periodo. La guerra di Corea non suscitò un moto spontaneo di indignazione e protesta, come accadde invece più tardi per il Vietnam. Nessuna macchia offuscava ancora l’immagine positiva dell’America, e i giovani di tutta Italia si lasciavano conquistare dalle novità e dalle mode di oltre Atlantico: i juke-box, i flipper, il rock and roll, i film di Marilyn Monroe e James Dean.

All’interno del paese la Chiesa rimaneva la maggiore autorità morale e ideologica. L’ormai anziano Pio XII continuava a rammentare al clero e ai fedeli la necessità di proseguire senza cedimenti la lotta al comunismo, per la difesa della famiglia cristiana, e della secolare tradizione cattolica contro l’arrogante nemico che veniva dall’Est. La cultura sociale cattolica, come si è visto, era forte soprattutto nelle zone «bianche» della Lombardia e del Veneto, ma i combattivi messaggi diffusi dalle parrocchie erano ascoltati in tutto il paese. Si tendeva insomma a vedere le cose in termini di bianco o nero, o piuttosto in bianco e rosso: i geniali racconti di «Don Camillo» di Guareschi avevano una solida base nella realtà. Persino i giornalini dei ragazzi erano ideologicamente ben riconoscibili. «Il Vittorioso» dell’Azione cattolica celebrò la Pasqua del 1951 con un racconto dal titolo Resurrezione che illustrava la parabola del figliol prodigo; sull’altra sponda «II Pioniere», del Partito comunista, iniziò a pubblicare il 31 marzo 1951 «Scugnizzo», un nuovo fumetto «dedicato alla memoria dei ragazzi napoletani che hanno gloriosamente combattuto e sono eroicamente caduti nelle Quattro Giornate di Napoli del settembre 1943».

Cattolicesimo, americanismo, fordismo: insieme essi crearono un’improbabile ma formidabile base per l’ideologia dominante. Tra queste componenti c’erano naturalmente forti tensioni, ma in epoca di guerra fredda e in una società relativamente statica (relativamente a ciò che sarebbe stata in seguito), le contraddizioni potevano essere ignorate o si poteva perfino tentare qualche ardita sintesi come fece Fanfani nel 1956.

Volendo determinare la base materiale del consenso alla Democrazia cristiana, dovremo guardare allo Stato: il partito cercò sempre, consapevolmente e con successo, di accrescere il potere economico di quest’ultimo e la sua capacità d’intervenire efficacemente nella società civile. Sotto questo aspetto i governi democristiani hanno introdotto delle novità, anche se in modo non sistematico, e possono rivendicare il merito di aver realizzato concretamente quel legame tra Stato e società che era stato il vanto ingiustificato di Mussolini.

Se si prova a scomporre il nuovo consenso in termini di classe, è possibile scorgere quanti differenti settori della società furono attratti con successo sotto l’egida democristiana. L’interclassismo della Dc non fu un’illusione. Molti elementi tradizionali del mondo degli affari denunciarono l’invadenza del nuovo potere economico statale, ma la maggior parte degli industriali fu più che grata alla De per la sua schiacciante sconfitta del movimento operaio. La vecchia aristocrazia terriera meridionale lamentò di essere stata «abbandonata» dalla Dc all’epoca della riforma agraria, ma anche per essa vi fu una consolazione adeguata, sotto forma di generose indennità governative per la terra confiscata, che poterono essere favorevolmente investite nella speculazione edilizia delle città meridionali.

Nessun settore della società fu più corteggiato dei ceti medi. Ad essi, come ha scritto Pizzorno, erano riservate «le carezze e le apprensioni del regime». Il fatto che gli alleati politici della Dc – repubblicani, liberali e socialdemocratici – ottenessero voti soprattutto fra i ceti medi, servì ad attrarre ancor più l’attenzione su di loro.

Si è ormai parlato a sufficienza della cura rivolta, tra i ceti medi tradizionali, ai piccoli agricoltori. La creazione degli enti di riforma agraria, la legge sulle ipoteche rurali, l’attività della Coldiretti, l’istituzione delle Casse mutue, testimoniano tutte di uno straordinario livello di attenzione da parte della Dc e del governo. Le cose andarono bene anche per altri settori tradizionali: gli artigiani ottennero l’assicurazione sulla salute, e pensioni simili a quelle degli agricoltori; i negozianti trovarono una maggiore facilità nell’ottenere le licenze e nel rinnovarle, mentre si continuò ad ostacolare la nascita dei supermarket. Il numero dei dettaglianti aumentò in modo significativo tra il 1951 e il 1961, passando dal 6,7 al 7,6 per cento della forza-lavoro attiva. La maggior parte dell’incremento derivò dai piccoli negozi familiari, gestiti da marito e moglie, che vendevano generi alimentari.

Molto poco si sa sui nuovi settori dei ceti medi degli anni ’50: impiegati e tecnici. I funzionari statali si lamentarono per interferenze politiche, ma accolsero di buon grado la sicurezza del posto di lavoro promessa loro da Fanfani, soprattutto dopo le incertezze del tempo di guerra. I laureati meridionali declassati, la «più pericolosa» delle classi di Mussolini, trovarono un mercato del lavoro favorevole grazie all’espandersi delle burocrazie centrali e periferiche.

Le piccole imprese prosperarono, dal momento che la tassazione a loro carico era minima e in esse non esistevano sindacati. Anche le classi medie professionali fiorirono, e i vasti progetti di opere pubbliche del Sud offrirono considerevoli possibilità di arricchirsi. Ingegneri, architetti, avvocati e ragionieri, purché collegati ai nuovi padrini delle città, poterono guardare con gioia ad anni di attività lucrose e di posizioni influenti. I ceti medi, dunque, avrebbero potuto difficilmente passarsela meglio.

Per la classe operaia la storia fu naturalmente abbastanza diversa. Il proletariato del triangolo industriale, gli operai delle piccole fabbriche dell’Italia centrale, i braccianti di tutta Italia costituirono lo zoccolo duro del consenso della sinistra. Anche qui il quadro non era tuttavia uniforme. Gli operai cattolici, quando le Acli raggiunsero il culmine della loro popolarità, votarono compatti per la Dc e la Cisl stava scalzando il favore della Cgil non solo nel Veneto ma anche nelle sue roccheforti lombarde e piemontesi. Nel Sud i piani dei lavori pubblici e il boom edilizio offrirono lavoro a decine di migliaia di disoccupati. Le prime ondate di emigrazione dal Meridione ebbero luogo in questo periodo, quando i contadini delle zone collinose si spostarono nei capoluoghi di provincia diventando operai edili. In queste nuove realtà il sindacato era debole, e i rapporti dominanti erano quelli clientelari e di parentela.

Se è plausibile affermare che il grosso dei sostenitori della Dc fosse concentrato in alcune zone del paese, prevalentemente in Meridione e nelle zone «bianche» del Nord-est, è pur vero che durante gli anni ’50 la Dc controllava, attraverso coalizioni centriste di vario tipo, tutti i consigli comunali delle principali città italiane ad eccezione di Bologna. Non tutte le città erano governate con i criteri tipici del Meridione; l’amministrazione di Firenze, sotto La Pira, rappresentava la migliore smentita a una tale affermazione.

E difficile tuttavia pervenire alla conclusione che la Dc fosse realmente egemone nella società italiana. Malgrado la varietà del consenso, sia urbano sia rurale, che si estendeva in alto e in basso lungo la scala sociale a partire dal cuore stesso dei ceti medi, non si può dire che la Dc esercitasse un’efficace direzione morale, intellettuale e politica sull’intera società.

Probabilmente qualcosa del genere avveniva in Lombardia e in Veneto, dove il radicamento dei valori cattolici era assai più forte che altrove. Ma anche qui solo in parte. Un’indagine promossa dalle Acli vicentine nel 1954, prevalentemente tra giovani di sesso maschile di età compresa tra i 14 e i 26 anni, mostrò uno straordinario consenso per la Dc, ma rivelò anche come il partito fosse ritenuto carente sui valori della giustizia sociale e del lavoro. Un contadino ventitreenne di Valdagno scrisse: «La Dc difende i valori dell’Uomo, i valori morali, ma è ancora debole e incompleta sulle questioni sociali».

Altrove l’adesione ideologica alla Dc era molto più debole. Soprattutto nel Sud, il partito era visto più come uno strumento da utilizzare che non come rappresentante di un insieme di valori in cui credere.

Soprattutto, la Democrazia cristiana non riuscì a creare un’immagine dello Stato con cui la gente comune si potesse identificare. Il cittadino non si sentiva vincolato a uno Stato che non riusciva a garantirgli funzionari onesti e servizi pubblici decenti, maggiore giustizia e democrazia, una migliore tutela delle libertà civili: molti principi della Costituzione repubblicana restavano ancora dei miti scritti sulla carta. Si può capire perché, nel migliore dei casi, il cittadino guardasse allo Stato con un certo cinismo, o nel peggiore, lo considerasse disonesto e oppressivo. Come si è detto in precedenza, non tutta la colpa di questo stato di cose risiedeva nella Democrazia cristiana. Quando, però, il consenso politico era al culmine, la Dc fece ben poco per migliorare la situazione e parecchio per accentuarne alcune tra le peggiori caratteristiche.

 

PAUL GINSBORG

Da “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi” – Einaudi

Foto: Rete

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close