
Autoritratto
Giuseppe Abbati nacque a Napoli il 13 gennaio 1836 da Vincenzo, pittore, e da Francesca Romano. Fu condotto a Venezia, dove (dal 1850 al 1853) frequentò all’Accademia i corsi di M. Grigoletti e del Bagnara e dove nel 1856 conobbe T. Signorini e V. D’Ancona in viaggio di studio. Dopo il ’56 a Napoli dipinse a bottega con il padre. Nel 1860, reduce dalla campagna garibaldina, durante la quale aveva subito la perdita dell’occhio destro, si stabilì a Firenze e fu introdotto da S. De Tivoli nel gruppo dei macchiaioli. Come pittore di interni ottenne un certo successo alla prima mostra italiana del 1861 a Firenze. Ma subito dopo iniziò gli studi all’aperto, in chiostri soleggiati (Chiostro di S. Croce, 1862, Milano, collezione Jucker, unica sua opera datata), tra gli orti di Pergentina – allora aperta campagna alle porte di Firenze – e a Castiglioncello, mèta dei suoi frequenti soggiorni nella casa ospitale di Diego Martelli. Combatté anche nella guerra del ’66. Tornato dalla breve prigionia in Croazia, fissò la sua dimora a Castelnuovo della Misericordia, presso Castiglioncello. Morso dal suo cane, morì all’ospedale di Firenze il 21 febbraio 1868.

Ritratto di Giuseppe Abbati (1865) di Giovanni Boldini.
Unitosi al gruppo della cosiddetta “scuola di Pergentina” – R. Sernesi, O. Borrani, S. Lega e T. Signorini – che proseguiva le ricerche di sintesi di forma-colore (la “macchia”) iniziate da S. De Tivoli, da N. Costa, da G. Fattori, da V. Cabianca e dallo stesso T. Signorini, l’Abbati abbandonò gli impasti densi e i toni accesi dell’esperienza napoletana, vissuta accanto a F. Palizzi ed a D. Morelli, si liberò da scolastiche minuzie e si volse a gamme argentee ed a stesure larghe e leggere: dipinti come L’Arno alla Casaccia (Milano, coll. Toscanini), Buoi sulla spiaggia(Roma, Galleria naz. d’arte moderna), Il Mugnone alle Cure (Milano, coll. Jucker) ne fanno uno dei macchiaioli più nobili e più schietti, da avvicinarsi al Sernesi, al Borrani ed al Fattori nei loro momenti migliori. Le poche lettere rimaste rivelano una mente acuta e spregiudicata e vivi interessi culturali, che l’intimità spirituale con D. Martelli sollecitava e favoriva. Ebbe talora gesti di singolare fierezza e disinteresse (rifiutò il premio di pittura che gli era stato conferito nel 1861 e la medaglia al valore per la campagna del ’60; ricusò, malgrado il bisogno, di chiedere la pensione che gli spettava per la grave mutilazione sofferta). Opere sue, oltre che nelle raccolte citate, sono alla Galleria d’arte moderna di Firenze (La cappella del Podestà, Il cortile del Bargello, La preghiera, ecc.), alla Galleria nazionale di Capodimonte (Monaco nel coro) ed in numerose collezioni private (Borgiotti di Firenze, Stramezzi di Crema, Giustiniani di Roma, Angelini di Livorno, Nannini Parenti e Gagliardini di Milano).
(Fonte: Amalia Mezzetti in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 1, 1960)

Il prato dello strozzino
Figlio di Vincenzo Abbati, pittore d’interni napoletano, segue la famiglia prima a Firenze, nel 1842, poi Venezia dove vive dal 1846 al 1858. Dopo un iniziale apprendistato con il padre, dal 1850 Giuseppe studia all‘Accademia, con la guida dei maestri Grigoletti e Bagnara. A Venezia conosce e frequenta Stefano Ussi, Domenico Morelli, Vito D’Ancona e Telemaco Signorini, in città per un soggiorno di studio. Nel 1858 Abbati è nuovamente a Napoli, dove l’anno successivo espone alla mostra del Reale Museo Borbonico il dipinto “La Cappella di San Tommaso d’Aquino in San Domenico Maggiore”.
Nel 1860 si unisce alla Spedizione dei Mille e, durante una battaglia, perde un occhio. Alla fine dello stesso anno si trasferisce a Firenze, dove ritrova Signorini e D’Ancona che lo introducono all’ambiente del Caffè Michelangelo, centro propulsore del movimento macchiaiolo, frequentato da pittori quali Vincenzo Cabianca, Odoardo Borrani, Serafino De Tivoli e animato dal critico, collezionista e mecenate Diego Martelli. Abbati stringe intime amicizie ed avvia un limpido ed intenso percorso artistico, destinato tuttavia a concludersi pochi anni dopo, che permette di annoverarlo tra i migliori pittori dell’Ottocento italiano. Esegue, in quel periodo, studi degli interni delle chiese fiorentine di San Miniato e Santa Croce, trascorre i mesi estivi del 1861 a Castiglioncello, ospite di Diego Martelli insieme a Signorini e, probabilmente alla fine dello stesso anno, dipinge “Il chiostro di Santa Croce”.

Giuseppe Abbati in tenuta da garibaldino
La sua attività espositiva, tra 1862 e 1864, è costante: nel 1863, alle Promotrici di Torino e di Firenze, espone opere eseguite “en plein air”, come “Dintorni di Firenze”, “Ulivi del Monte alle Croci”, “Motivo presso Castiglioncello”; nel 1864, a Brera, presenta “Il lattaio di Piagentina”. Durante il medesimo anno esegue diversi studi dal vero del Camposanto di Pisa e trascorre l’estate a Castiglioncello, nuovamente ospite di Martelli, con il quale condivide, a conferma di una stretta amicizia, l’appartamento fiorentino di via della Sprone sostituito, nel 1865, da una casa fuori porta San Gallo, in comune anche con Zandomeneghi, appena arrivato da Venezia. Allo stesso periodo risale il bel “Ritratto di Teresa Fabbrini”, e il “Monaco al coro”, inviato alla Promotrice di Napoli e acquistato, in seguito, dal Museo di Capodimonte.
Intanto la passione politica non viene meno. Partecipa nel 1866 alla III Guerra d’Indipendenza, viene fatto prigioniero nella battaglia di Custoza e internato in Croazia. Rientrato a Firenze nel dicembre del 1866, si trasferisce a Castelnuovo di Misericordia, nell’entroterra livornese, dove dipinge felicemente, invia opere a diverse esposizioni e, poco dopo, tramite Martelli, conosce Giovanni Fattori, che ne apprezza il lavoro. Nel dicembre 1867, Abbati viene morso dal proprio cane Cennino, si ammala di idrofobia e muore due mesi più tardi all’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze.
(Fonte: Gioela Massagli – © Studio d’Arte dell’800)

Bovi aggiogati
I Macchiaioli
È a Firenze che si sviluppa, fra il 1850 e il 1860, il più importante movimento artistico dell’Ottocento italiano, quello dei macchiaioli, che si propone di promuovere, contemporaneamente al rinnovamento politico, la cultura pittorica nazionale. La poetica macchiaiola è realista, sulle orme di Courbet e della scuola di Barbizon, si oppone al Romanticismo e al Purismo accademico e sostiene che l’immagine del vero è un contrasto di macchie di colore e di chiaroscuro e la quantità di luce muta il tono ma non la sostanza dei colori, che sono la luce e l’ombra dell’immagine: gli oggetti rappresentati sono il risultato della sensazione primaria dell’osservatore, che è sensazione di luce e di ombra colorata.
In queste rappresentazioni si vuole necessariamente escludere tanto l’emozione soggettiva del pittore che, interferendo nel fare artistico, produrrebbe effetti non naturalistici dando luogo, nella storia dell’arte, a una pittura sentimentale, aneddotica, eroica, celebrativa, dunque a una pittura non realistica, quanto la riflessione intellettualistica dell’artista che costruisce immagini fondate a priori su un disegno prospettico, elaborato nella bottega; la pittura accademica, infatti, prima disegna vari oggetti, che poi connette e colora; per i macchiaioli, invece, il disegno si mostra a posteriori, è cioè il risultato della connessione delle macchie di colore sul piano della tela.
Il contributo dell’Abbati sta nell’
«Indagare en plein air luci e ombre nell’infinito ventaglio delle sfumature dei colori” nei “paesaggi di Maremma, i cui limiti sono orizzonti di cielo e i soggetti elementi di natura solitaria, laddove gli spazi – luce si ingrandiscono e la materia si appiattisce fino a far trasparire le venature della superficie dipinta.»
(Stivani)
«In Abbati la fissazione della luce nella macchia è molto accentuata; ma per questo mezzo, nei momenti più felici, egli riesce a rendere l’impressione di una grave stasi, pacata e lenta; e nello stesso tempo – giacché i suoi colori sono belli anche qualitativamente – a raggiungere un equilibrio prezioso e decorativo.»
(Brizio)
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Abbati