ANTICO EGITTO – II mago e la personificazione dei mali

Heka, (primo a destra) come rappresentato nella tomba di Ramesse I

Nella religione egizia, Heka (detto anche Hike) era la deificazione della magia, essendo il suo nome derivato dall’egizio ḥk3w abitualmente tradotto con magia.

Secondo la scrittura egizia (Testi sei Sarcofagi, spell 261), Heka esisteva “prima della nascita della dualità”, creato da un dio quando ancora non esistevano “due cose”.

Il termine “Heka” era usato anche per la pratica di riti magici. Il termine in lingua copta “hik” deriva dall’antico egizio.

Nella mitologia

Heka significa letteralmente colui che attiva il Ka, l’aspetto dell’anima che incorpora la personalità. Gli Egizi pensavano che la magia operasse attivando la potenza dell’anima. “Heka” implica anche grande potenza ed influenza, particolarmente se si parla del Ka degli dei. Heka agiva assieme ad Hu, il principio della parola divina, e Sia, il concetto della divina onniscienza, per creare le basi della “potenza creativa” sia nel mondo mortale che in quello divino.

Essendo uno che attiva il Ka, Heka viene anche definito figlio di Atum, creatore delle cose in generale, o occasionalmente figlio di Khnum, che creò lo specifico Ba personale (un altro aspetto dell’anima). Essendo figlio di Khnum, sua madre sarebbe stata Menhit.

Il geroglifico che rappresenta il suo nome è un pezzo di lino con un paio di braccia alzate; somiglia anche vagamente ad un paio di serpenti intrecciati tra le braccia di qualcuno. Di conseguenza, si dice anche che Heka abbia combattuto e vinto due serpenti, ed era solitamente raffigurato come un uomo che strozza due serpenti intrecciati. Medicina e dottori sono visti come rami della magia, per cui i sacerdoti di Heka svolgevano anche queste attività.

Culto

Gli egizi credevano che con l’aiuto di Heka potevano influenzare il mondo degli dei e guadagnare protezione, salute ed aiuto. Il vivere laico e religioso non era distinto nel mondo egizio. Ogni aspetto della vita, del mondo, di piante ed animali, l’esistenza mortale, le pratiche del culto e l’oltretomba, erano connessi al potere ed all’autorità degli dei.

Il dio Heka distrusse il serpente Apopi, nemico di Ra ed ebbe un culto fin dall’Antico Regno.

Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Heka_(mitologia)

Heka, la magia nell’antico Egitto

Heka

 

La magia, heka in egizio, era considerata una forza primordiale antichissima, più antica di tutti gli dei. Secondo gli abitanti del Paese del Nilo l’uomo – così come tutti gli esseri viventi – era in balia di forze ostili o favorevoli, di esseri visibili o invisibili e il tutto era impregnato di una forza spirituale che i sapienti egizi chiamavano heka, un termine che probabilmente significa “governare le potenze”.

Nata insieme al demiurgo, il dio creatore dell’universo che, proprio grazie alla sua forza, poté creare tutto ciò che esiste, veniva di solito rappresentata sotto forma di uomo con il geroglifico heka scritto sopra il capo. Una delle più antiche immagini della deificazione di Heka è quella che si trova nel tempio solare del faraone Sahura ad Abusir, risalente alla V dinastia (2450-2325 a.C.). Qui Heka è al fianco di Thot, dio della saggezza e della sapienza, e ciò simbolicamente stava ad indicare che la magia doveva sempre essere accompagnata da queste due virtù.

Studiare la magia

L’heka era strettamente legata alla religione, e infatti la maggior parte dei maghi furono sacerdoti, che per poter “imparare” le pratiche della scienza magica dovevano studiarla sui papiri custoditi all’interno delle biblioteche annesse ai templi più importanti o nel palazzo del faraone. Il catalogo della biblioteca del tempio di Edfu, per esempio, elenca numerose opere contenenti testi magici. Tra le fonti delle magia giunte fino a noi ci sono testi di medicina, in cui si faceva largo uso di formule magiche, e anche alcuni testi a contenuto esclusivamente magico come il papiro Ebers e il papiro di Londra, entrambi risalenti al Nuovo Regno ( 1539-1069 a.C.). Spesso per conferire più autorità agli scritti si diceva che li aveva redatti il dio Thot in persona.

Piace/tetta con sette occhi di Horo, polente amuleto proiettivo, del IH-II millennio a. C., Museo del Louvre, Parigi,

Heka era dunque una forza soprannaturale, una sorta di energia essenziale che circolava nell’universo degli dei e in quello degli uomini e che dominava e alimentava la vita. Tutti avevano bisogno della magia: i comuni mortali, gli dei e anche i faraoni. Gli uomini potevano usarla per difendersi dalle insidie della vita, come si legge nel testo letterario L’insegnamento per Merikara, che definisce la magia come «Un’arma a loro disposizione [degli uomini] affinché possano tener lontano il braccio degli avvenimenti», ovvero le catastrofi. Ma la necessità di servirsi della magia non era un solo un bisogno dei vivi: anche i morti avevano bisogno di heka per superare le insidie dell’aldilà. Non a caso le salme venivano sempre accompagnate da testi e oggetti che rendono le antiche tombe egizie i luoghi magici per eccellenza. Neppure le divinità potevano fare a meno della magia: ne erano invece intrise e – simbolicamente – se ne nutrivano.

Magia nera al servizio dello stato

Il faraone, secondo gli egizi anch’esso una divinità, ne aveva bisogno in vita per difendersi dai nemici dell’Egitto e nella morte per superare gli ostacoli che avrebbe potuto incontrare nell’aldilà. Nei Testi delle Piramidi – un’antichissima raccolta di formule magiche e preghiere scritte sulle pareti delle piramidi della VI dinastia (2325-2175 a.C. circa) – un inno spiega che il faraone, per acquisire la forza magica degli dei doveva, in modo primordiale e barbarico, divorarli. È quello che gli studiosi hanno chiamato Inno cannibale:

 

«Io sono quello che mangia la loro magia e ingoia i loro spiriti

I loro grandi sono per il mio pranzo mattutino,

i loro medi sono per il mio pranzo serale,

i loro piccoli sono per il mio pasto notturno».

Due statuette di esecrazione, XII dinastìa, Haaretz Museum, Tei Aviv. Le
due statuette raffigurano nemici sui quali si inscrivono formule magicheper
renderli inoffensivi

Compito fondamentale del faraone era quello di proteggere il suo popolo dai nemici, e per farlo poteva perfino utilizzare mezzi della magia nera. Con tali malefici si cercava di neutralizzare i nemici a distanza, utilizzando rituali particolari che sono ben documentati dai ritrovamenti effettuati nella città di Tebe e Menfi. A Tebe l’usanza era quella di trascrivere i nomi dei nemici su vasi di terracotta rossa che poi venivano rotti. Si credeva infatti che la rottura rituale del vaso avrebbe annientato le persone i cui nomi erano scritti sulle loro pareti. Questo sortilegio non era utilizzato solo contro i nemici esterni all’Egitto ma anche per i ribelli interni. A Saqqara, nella necropoli di Menfi, non venivano adoperati vasi ma vere e proprie statuette d’argilla che riproducevano sommariamente l’immagine di un prigioniero con le braccia legate dietro alla schiena, con il nome del nemico da sconfiggere scritto sopra. Queste statuette venivano sotterrate nella necropoli portando così in breve tempo – secondo le credenze egizie – alla morte delle persone rappresentate.

Magia nera contro lo stato: storia di una congiura

I libri magici erano custoditi e ben protetti, in quanto, se fossero caduti nelle mani sbagliate, sarebbero potuti risultare estremamente pericolosi e qualche malintenzionato avrebbe potuto utilizzarli contro il sovrano stesso. È quanto accadde alla corte del faraone Ramesse III, nella prima metà del XII secolo a.C. Alcuni papiri – il papiro giudiziario di Torino, il papiro Lee e il papiro Rollins – raccontano di una congiura nata nell’harem del faraone Ramesse III che aveva nei suoi intenti quello di uccidere il sovrano e mettere sul trono il figlio di una concubina del re. La congiura non sortì l’effetto desiderato: secondo i papiri i traditori vennero arrestati e condannati a morte, e i loro corpi furono bruciati così da impedire ai defunti di rinascere nell’aldilà. D’altra parte gli studi effettuati sulla mummia del faraone dimostrano che a Ramesse III non andò meglio: la sua morte fu provocata da un taglio sulla gola, coperto sapientemente dalle bende. I papiri riportano che durante questa congiura vennero usati i poteri della magia nera: uno dei congiurati, Penhuibin, aveva ottenuto da un sacerdote di corte un libro di magia appartenente alla biblioteca reale. Fu allora che, secondo il papiro Lee, «si mise a fare uso della forza divina fra la gente».

Secondo gli egizi la magia è una forza divina e pericolosa, se usata da mani inesperte. E infatti, continua il papiro Lee, Penhuibib «fabbricò delle figure umane in cera», che introdusse nell’harem per neutralizzare avversari e guardie. Il testo continua poi dicendo: «Gelando alcuni dei soldati ai loro posti, a mezzo di formule magiche; stordendone altri con alcune parole; e allontanando altri da questo luogo». Il papiro Rollins fa riferimento anche a un altro personaggio, che «si mise ad esercitare la magia al fine di gelare gli uomini al loro posto e causare il disastro e fabbricò in cera statuette di uomini per paralizzare le loro membra». In quest’ultima descrizione appaiono tutti gli aspetti che caratterizzano la magia nera: statuette di cera, stordimento, costrizione, paralisi.

Stele Magica, datata intorno al 360-343 a.C. Risale al regno di Nectanebo II. Nella parte sottostante vi sono incisi tredici incantesimi per proteggere da morsi e ferite velenose

Nectanebo II il re mago

Nectanebo II (360-343 a. C.) fu l’ultimo faraone d’ Egitto ed è ricordato per essere stato un grande mago. Secondo la tradizione, ad esempio, gli bastava una vasca piena d’acqua e delle barchette di cera per combattere le sue battaglie navali contro i nemici: con indosso una veste da sacerdote e in mano un bastone magico di ebano, iniziava a recitare formule magiche che animavano le barchette di cera facendole affondare una ad una. Le imbarcazioni nemiche – secondo la tradizione – condividevano lo stesso destino. Nectanebo II visse in un periodo molto difficile e tormentato: l’impero persiano stava vivendo la sua ultima fase di prosperità e ne 351 a.C. attaccò l’Egitto. Il faraone riuscì a respingere i persiani, ma quando questi attaccarono una seconda volta, nel 343 a.C., ebbero la meglio e il re fu costretto a fuggire prima verso il sud del Paese e poi in Etiopia, mentre l’Egitto diveniva una satrapia persiana.

È qui che finisce la storia e inizia la leggenda di Nectanebo II. Secondo il Romanzo di Alessandro – testo che ebbe un enorme successo dall’antichità fino al Medioevo e che raccoglie una serie di racconti e di episodi leggendari sulla vita di Alessandro Magno – l’ultimo faraone d’Egitto non si trasferì in Etiopia ma in Macedonia presso la corte del re Filippo II e della regina Olimpia, futuri genitori di Alessandro Magno. Olimpia divenne ben presto una devota del re-mago e l’egizio, invaghitosi della regina, la convinse che il dio Amon avrebbe voluto giacere con lei e che si sarebbe presentato al suo cospetto sotto forma di dragone. La regina acconsentì ad incontrare il dio. Nectabnebo II quindi le somministrò delle erbe particolari che la inebriarono, si presentò al posto di Amon e fece l’amore con lei. Prima di lasciarla le mise una mano sul ventre pronunciando queste parole: «Gioisci o donna, poiché sei rimasta incinta da me e genererai un figlio che si impadronirà del regno di tutto il mondo».

La storia nacque sicuramente in Egitto, i cui abitanti credevano che il loro ultimo re, Nectanebo II, era in realtà il padre di Alessandro Magno. Il figlio del re-mago avrebbe infatti sconfitto i persiani e riconquistato l’Egitto nel 332 a.C. Si fece incoronare faraone presso l’oasi di Siwa, dove l’oracolo di Amon riconobbe in lui il nuovo Signore dell’universo

BARBARA FAENZA

Da:  https://www.storicang.it/a/heka-magia-nellantico-egitto_15533

Figurina trafitta, con braccia e gambe legate dietro la schiena, risalente al periodo romano (Musée du Louvre, Paris).

È naturale che in questo ricomporsi di un equilibrio fra i valori sociali e i valori personali dell’esperienza religiosa la pratica della magia abbia la sua parte. Ne avevamo intravisto l’esistenza già nei Testi dette Piramidi in formule contro scorpioni e serpenti: e tipica della magia egiziana resterà, per tutta l’età classica, questa funzione profilattica o curativa.

Medici e maghi agiscono in concordia, e si appoggiano entrambi alla struttura organizzativa del tempio. A Kahun abbiamo indicato la presenza di testi medici e veterinari (addirittura una ricetta per curare i pesci: probabilmente sacri), e fra i frammenti medici c’è almeno una formula magica.

Una interessante raccolta di formule «per la madre e per il bambino», come è chiamata dal suo contenuto, dà un’idea assai precisa di come agisca il mago, personificando i mali che deve combattere e identificando sé e il suo protetto con divinità capaci di averne ragione:

«Sguscia via o tu Asiatica che vieni per le montagne! o tu Nubiana che vieni per il deserto! Sei tu una schiava? Va’ con il vomito. Sei tu una dama? Va’ con la sua orina. Va’ con il muco del suo naso! Va’ con il sudore delle sue membra! Le mie due mani sono su questo bambino. Le due mani di Isi sono su di lui, così come essa pose le sue due mani su suo figlio Horo».

Le malattie sono identificate come straniere, sono esorcizzate con un mito cui si allude in chiusura e che ben conosciamo e che è paradigmatico nei testi magici.

Queste personificazioni uniscono spesso la magia alla religione ufficiale: ma la sua autonoma potenza è ben descritta in una formula dei Testi dei Sarcofagi in cui il morto così conclude:

«Prostratevi davanti a me, o tori di Nut! Venite calzati di sandali nella mia grande dignità di signore dei ka, erede di Ra Atum. Io sono giunto per prendere il mio posto e assumere la mia dignità. A me appartiene tutto dapprima che voi foste esistiti, o Dei, e voi siete calati come ultimi. Io sono Magia!».

 

Da: “Storia delle Religioni” – La Biblioteca di Repubblica

Foto: Rete

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