Miseria e bellezza, la Calabria di V. Padula

 

«Nei canti popolari vi sono miseria e bellezza; occorre che la miseria cessi e la bellezza resti»; così scriveva un abate acrese a metà Ottocento. Del resto, lo stesso abate aveva invitato a non adorare il Cristo di legno presente in tutte le chiese, ma il Cristo di carne che era il bracciante della sua terra.

Questo atteggiamento può fornire un’indicazione essenziale per comprendere le ragioni di una «fortuna» che colpì le opere di Vincenzo Padula per lo più misconosciuto nonostante la lucidità del suo sguardo e il vigore della sua opera.

In essa vi è indubbiamente un’attenzione profonda verso la cultura popolare calabrese, ma uguale attenzione è rivolta alle condizioni economico-sociali degli strati popolari, alle loro miserrime condizioni di vita.

Non si tratta soltanto di un atteggiamento intellettuale che vede come le formazioni culturali siano da rapportare a quelle sociali, connessioni quasi sempre ignorate dagli studi antropologici, persino da quelli contemporanei: si pensi, e non è che un esempio, a quanta antropologia statunitense novecentesca tenda a spiegare la cultura con la cultura.

In Padula vi è una prospettiva politica finalizzata all’eliminazione della miseria. Bisognerà attendere altre epoche perché una prospettiva siffatta sia affermata con decisione in ambito antropologico, e il pensiero va immediatamente a Ernesto de Martino e alla sua collera quando attraversa il quartiere della Rabata di Tricarico, immagine del caos.

[…] il fatto reale è che in questo scenario che sembra la negazione della storia vivono alcune migliaia di persone storiche. Vivono nel groviglio di tane che si addossano alle pendici alquanto brusche del colle di Tricarico, onde ne risulta un labirinto di sconnesse viuzze precipiti, sfogo di fogne della parte alta del paese. Vivono, ma meglio si direbbe che contendono al caos le più elementari distinzioni dell’essere: la luce lotta qui ancora con le tenebre, e la forzata coabitazione di uomini e bestie suggerisce l’immagine di una specie umana ancora in lotta per distinguersi dalle specie animali. Rachitismo, artritismo e gozzo insidiano i corpi: eppure essi vivono. Eccoli qui, davanti a noi, a raccontarci la loro storia.

Da qui nasce la collera dell’etnologo, la sua scelta di operare per il concreto riscatto di persone costrette a vivere come bestie in tane immonde.

Non si vuole proporre l’immagine di un Padula rivoluzionario e si è consapevoli che la polemica politica dell’abate trovava una sponda istituzionale nel Prefetto di Cosenza del tempo, che rese possibile, di fatto, la pubblicazione de «II Bruzio».

Si vuole più fondatamente sostenere che Vincenzo Padula, già a metà del secolo XIX, riteneva inadeguata l’analisi del mero dato culturale, senza che venisse indagato anche il suo contesto specifico. Non si tratta soltanto di una ripresa dei brani evangelici nei quali il Messia propone identificazione con «il più piccolo dei fratelli», con l’affamato, l’assetato, con l’ultimo. Certo, già riprendere tale aspetto evangelico ha un valore eversivo nei confronti del Potere che la Chiesa non ha testimoniato in maniera costante nella sua storia plurimillenaria. In Padula vi è una predilezione del Cristo di carne, il bracciante, rispetto al Cristo della liturgia ufficiale.

Si tratta di un atteggiamento che supera il pur cauto riformismo dello stesso Padula. Vien da pensare a un canto popolare presente nella metà dell’Ottocento in Sicilia e che ebbe una vicenda significativa. Nel canto si immagina un servo che si rivolge al Crocifisso pregandolo di distruggere la «mala razza» dei padroni. Il Cristo, riferendosi anche alla sua amara esperienza, invita il servo a usare le sue braccia, perché chi vuole giustizia se la faccia da sé, senza sperare che sia attuata da altri al proprio posto.

 

Un servu tempu fa, di chista piazza,

cussi prijava a un Cristu e cci dicìa:

Signuri, ‘u me’ patruni mi strapazza,

mi tratta comu un cani di la via;

tuttu mi pigghia ccu la so’ manazza

la vita dici chi mancu hedi mia;

si jò mi lagnu cchiù pejiu amminazza,

ccu ferri mi castìja a prigiunìa;

undi jò vi preju, chista mala razza

distruggìtila vui, Cristu pi mia.

Risposta del Crocifisso:

E tu forsi chi hai ciunchi li vrazza,

o puru l’hai ‘nchiuvati comu a mia?

cui voli la giustizia si la fazza

né speri ch’àutru la fazza pi tia.

Si tu sì omu e non sì testa pazza

metti a prufittu ‘sta sintenza mia

Jò non sarìa supra ‘sta cruciazza

si avissi fattu quantu dicu a tia.

 

Questa risposta, pubblicata da Lionardo Vigo nel 1857, provocò il sequestro di tutte le copie dell’opera, che potè essere diffusa soltanto dopo la sostituzione dell’incriminata risposta del Crocifisso con un’altra, molto più blanda e invitante alla rassegnazione. In essa il senso viene completamente ribaltato; all’invito, all’operosità e alla ribellione è stata sostituita l’ideologia del perdono, strumentalizzata al fine di smorzare ogni impeto di lotta e di garantire i dominatori, che potranno, opprimendo persone cui è stato proposto il valore di reagire alle offese con baci e abbracci, esercitare incontrastati e sicuri il loro dominio. Ecco la risposta del Crocifisso come venne riproposta:

 

E tu chi ti scurdasti, o testa pazza,

chiddu che scritta ‘ntra la liggi mia?

Sempri in guerra sarà l’umana razza

si cu l’offisi l’offisi castija;

a cui ti offenni, lu vasa e l’abbrazza

e in Paradisa sidirai ccu mia:

m’inchiuvaru l’ebrei ‘ntra sta cruciazza

e celu e terra disfari putìa.[…]

 

LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI

Da “Vincenzo Padula – Scritti demologici” Vol.I – Rubbettino

 

Foto: Rete

 

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