Panem et circenses

Tutti conoscono a memoria la tirata di Giovenale contro «la gente di Remo» sua contemporanea, la laconica requisitoria che freme più di disprezzo che di collera. Questo popolo decaduto,

«da che più mercato

Non fa di voti, le civili brighe

Esso non cura; quei che un dì l’imperio

Dava ed i fasci e le legioni e tutto,

Inerte or sta, sol di due cose pago:

Pane e circensi»:

duas tantum res anxius optat,

panem et circenses.

Per quanto siano assai noti, pure è opportuno citare questi versi […]. Perché, a parte la veemenza dell’invettiva, che brucia come il marchio del ferro rovente e in cui risuona il più bel grido repubblicano che sia stato lanciato sotto l’impero, essi testimoniano un fatto incontestabile e dominante, esprimono la verità della storia, quale l’enuncerà quarant’anni dopo Frontone, con la placidità del saggio di fronte all’evidenza: « II popolo romano è assorto soprattutto in due cose: nel vettovagliamento e negli spettacoli (populum romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri)».

In realtà i Cesari si incaricavano di nutrirlo e di distrarlo. Con le distribuzioni mensili del portico di Minucio davano la sicurezza del pane quotidiano, e con le rappresentazioni che offrivano in diversi luoghi religiosi o laici, nel Foro, nel teatro, nello stadio, nell’anfiteatro, nelle naumachie, riempivano e disciplinavano i suoi ozi, e lo tenevano sempre in esercizio con divertimenti sempre nuovi; e anche negli anni magri in cui le preoccupazioni finanziarie li costringevano a razionare le elargizioni, si davano da fare per procurare feste ancora più numerose e quali nessuna plebe, in nessun tempo, in nessun paese ha mai veduto.

Interroghiamo piuttosto i calendari forniti dall’epigrafia, dov’è menzione, con le date, delle feste del popolo romano: ogni colonna è zeppa di giorni festivi; vi sono quelli che seguono lo sviluppo dei mesi: le dodici idi, metà delle calende, un quarto delle none: 21 in tutto. Ci sono i 45 giorni delle feriae publicae la cui tradizione si perdeva nell’oscurità delle origini latine e si perpetuò sotto l’impero; tra le altre i Lupercalia in febbraio; i Parilia, i Cerealia, i Vinalia in aprile; i Vestalla e i Matralia in giugno; la novena dei Volcanalia in agosto; i Saturnali che andavano dal 17 al 24 dicembre.

Ci sono i ludi o giucchi che si concludevano in una sola giornata; le sfilate a cavallo del 19 marzo e del 19 ottobre; la corsa nei sacchi dei Robigalia, il 25 aprile; le corse a piedi o sui muli dei Consualia, il 21 agosto e il 15 dicembre; la gara di pesca con la lenza dei ludi piscatorii, l’8 di giugno; le corse di cavalli o dell’equus october, il 15 ottobre, dei ludi martiales, il primo di agosto, dell’anniversario della nascita di Augusto, fondatore del regime, il 23 settembre. A questi bisogna aggiungere — in date che variano secondo i regni — il genetliaco (dies natalis) e l’anniversario dell’avvento al trono (dies imperii) del principe al potere, e dell’apoteosi del suo predecessore, cosa che aggiunge ancora 12 giorni. Infine, ci sono i cicli dei giuochi, ora equestri, ora scenici, qualche volta equestri e scenici insieme, che la repubblica nelle ore gravi della sua storia aveva istituito in onore degli dèi e che in seguito furono accresciuti dall’ambizione dei dittatori e dalla politica dei Cesari: i ludi romani, fondati nel 366 a. C. e ora protratti dal 4 al 19 settembre; i ludi plebei, che han fatto la loro apparizione tra il 220 e il 216 a. C., e che allora si tenevano dal 4 al 17 novembre; i ludi Apollinares che datavano dal 208 a. C. e che si susseguivano dal 6 al 13 luglio; i ludi Cereales, che consacrati a Cerere nel 202 a. C. si svolgevano tra il 12 e il 18 aprile; i ludi Megalenses, consacrati alla Grande Madre dell’Ida (Cibele) nel 191, anno in cui fu consacrato il suo santuario palatino, e da allora costantemente ripetuti dal 4 al 10 aprile; i ludi Florales, di cui la dea Flora pare abbia ricevuto l’omaggio regolare non prima del 173 a. C. e che si compivano in condizioni speciali dal 28 aprile al 3 maggio; i ludi Victoriae Sullanae durante i quali si manifestò la pretesa di Silla alla divinità, e che continuavano duecento anni dopo la sua morte, dal 27 ottobre al 1° novembre; i ludi Victoriae Caesaris che, dal 20 al 30 luglio, continuavano a ricordare ai romani le gesta del conquistatore delle Gallie e che furono completati nel 45 d. C. con le quattro celebrazioni anniversarie di Farsalo, di Zela, di Tapso e di Munda; finalmente i ludi Fortunae Reducis, che Augusto aveva inaugurato al suo ritorno pacificatore nell’I 1 a. C. e che occupavano una decade, dal 3 al 12 ottobre.

Ricapitoliamo: ventidue giorni singolarmente e obbligatoriamente santificati, più quarantacinque giorni di feriae publicae, più 12 giorni di ludi singoli, più 103 giorni di ludi raggruppati in serie più o meno lunghe. Il calcolo è presto fatto, e trascurando certi doppioni, per cui due feste coincidevano e che, per esempio, dividevano l’8 di giugno tra i Vestalia e i ludi piscatorii, si arriva a questo risultato matematico: i giorni obbligatoriamente festivi della Roma imperiale occupavano più della metà dell’anno; anzi, la cifra di 182 cui noi siamo arrivati non è che un minimo sempre superato.

E, in realtà, nel nostro conto ci sono molte lacune. Non abbiamo contato le feste di Attis, che si svolgevano nel mese di marzo, in due tempi: da un Iato, un quatriduum della nascita, del sacrificio, della morte e della resurrezione del dio paredro di Cibele: la cannophoria, la dendrophoria, il sanguis e gli hilaria, e, dall’altro, una processione al fiume Almo, dove il 28 marzo veniva immerso l’idolo della Grande Madre; tanto più che, dal momento in cui l’imperatore Claudio ebbe accordato ad Attis il diritto di naturalizzazione romana, è ben difficile non considerare come ufficiali i misteri della sua religione.

Abbiamo lasciato da parte le feste dei sobborghi cui la popolazione di Roma partecipava con allegrezza, a cominciare dalle gozzoviglie campestri poste sotto l’invocazione d’Anna Perenna, fino alla solennità delle ferie latine in cima ai monti albani. E così pure non abbiamo parlato delle cerimonie che, senza impegnare le finanze né la responsabilità dello Stato, attiravano egualmente il favore della plebe romana: intorno ai santuari di quartiere, nelle cappelle dei culti nuovi ma leciti, nelle scholae delle corporazioni e dei collegi; così pure quelle imposte ai soldati dallo Stato, di cui abbiamo ritrovato la lista a Tebessa di Numidia e a Dura sull’Eufrate, e alle quali la plebe romana otteneva forse il diritto di assistere, nei Castra Pretoria, come a gloriose commemorazioni militari ed edificanti manifestazioni di lealismo. Abbiamo considerato solo le annate normali; ma c’erano anche le annate straordinarie, il cui programma normale si combinava con il ritorno dei cicli quadriennali, come in altri tempi gli Actiaca e, nel periodo che stiamo esaminando, l’Agon Capitolinus, e, di tanto in tanto, anche con la ricorrenza, che si protraeva per una lunga serie di giorni, di festività «secolari» (come nel 17 a.C., nell’88 e 204 a. C.) o di «centenari» della Città eterna (come nel 47, nel 147 e nel 248).

E, da ultimo, poiché sfuggono a ogni valutazione costante, le feste che la fantasia dei sovrani inseriva improvvisamente nel calendario, abbiamo dovuto trascurare le feste che i Cesari istituivano in soprannumero, in cui l’imprevisto aumentava l’interesse, e che crebbero d’importanza con la prosperità dei regni; i trionfi che l’imperatore si faceva decretare dal Senato; le gare che annunciava all’improvviso; e soprattutto i munera o combattimenti di gladiatori, ch’egli decretava con un pretesto occasionale, ebbero una frequenza alla fine uguale a quella dei ludi e, nel lI secolo d. C., continuavano per mesi interi. Ora, quanto abbiamo omesso nella statistica si ritrovava nella realtà; e in ultima analisi, si può affermare che, nell’epoca di cui ci occupiamo, non c’era anno romano che non recasse due giorni di festa per un giorno lavorativo.

 

JEROME CARCOPINO

Da “La vita quotidiana a Roma” – Laterza

Foto: Rete

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