Le donne spartane erano libere, o sfrenatamente licenziose?

Se c’è un argomento sul quale si è sbizzarrita la fantasia sia degli antichi sia dei moderni, è la condizione delle donne spartane: l’altra parte del cielo di Sparta. Che il giudizio condiviso dei Greci sull’argomento fosse fondamentalmente e inesorabilmente negativo non deve sorprendere: le spartane erano troppo diverse dal modello femminile con il quale erano abituati a confrontarsi, vale a dire quello ateniese.

Per rendersi conto di quale potesse essere la loro sorpresa di fronte al comportamento delle donne di Sparta bisogna partire da lontano, ovvero dalla considerazione che a Sparta non solo gli uomini, ma anche le donne ricevevano un’educazione, che pur non essendo una vera e propria agogé, [regime di educazione e allenamento] come quella maschile, era comunque parte di un progetto civico destinato alla loro socializzazione.

Non avendo una vita comunitaria organizzata come quella dei maschi, infatti, le femmine passavano l’infanzia e l’adolescenza in casa, in compagnia di altre donne. E al fine di eliminare in loro «ogni forma di mollezza, di educazione sedentaria e di femminilità» (Lyc., 14, 4), come scrive Plutarco, lo Stato voleva che esse facessero incontri al di fuori della cerchia familiare, consentendo loro una notevole libertà di movimento e una serie di attività altrove abitualmente riservate ai maschi.

Senza dimenticare, o meglio prestando la massima attenzione al compito fondamentale della riproduzione, esse cominciavano sin da giovani a esercitare il corpo praticando una serie di sport idonei a quel fine, come il lancio del disco e del giavellotto, ma soprattutto e in primo luogo la corsa, lo sport da loro preferito e popolare al punto che ogni anno, a Sparta, aveva luogo una corsa a loro riservata e dedicata a Elena, celebrata come paradeigma, vale a dire come modello di sposa: «tu sei la migliore di tutte noi, sei la perfetta tra le coetanee, bella, brava a tessere, a filare, a cantare, a suonare, con negli occhi ogni desiderio di amore, tu sei già padrona di casa, e noi domattina ci recheremo alla corsa e ai prati fioriti per cogliere corone profumate, parlando di te». Questo cantavano in suo onore le partecipanti, evidentemente ispirate dalla versione innocentista della sua storia, di chiara origine spartana.

Alla luce dei dati forniti da Teocrito il numero delle donne che partecipavano alla corsa era tale da far pensare che vi fossero ammesse tutte le lacedemoni, incluse le donne dei perieci: e tutte insieme, dicevano i benpensanti, correvano non solo nude, ma unte d’olio, come gli uomini. Al che si aggiungeva il fatto che l’abbigliamento da loro utilizzato durante le attività sportive era il «chitonisco scisso», un chitone corto e spaccato di lato, che lasciava liberi la spalla e il seno destro, il cui uso era diventato l’esempio della dissolutezza delle spartane, per questo significativamente definite «mostracosce» (phainomerides), con tutto il biasimo che ciò comportava: «neppure se lo volesse potrebbe essere onesta una delle donne spartiate, – dice Peleo nell’Andromaca di Euripide, – cresciute tra i giovani, fuori di casa, a cosce nude, con i pepli lasciati liberi, queste donne hanno in comune con gli uomini piste e palestre, in modo non tollerabile per me»(vv. 595-600).

Ma nessuno, quanto a riprovazione, superava Aristotele. A lui si deve la più severa (e incredibile) tra le tante descrizioni delle donne spartane, che prende le mosse dalla convinzione, presentata come un dato di fatto, che la libertà concessa alle donne fosse «pericolosa per l’orientamento della costituzione e la felicità cittadina» (Pol., II, 1269b).

Eccone le ragioni, elencate in un ordine logico ovviamente ineccepibile: «le donne sono una delle due metà in cui la popolazione è divisa. Se non seguono le regole che la città si è data, dunque, metà della popolazione non rispetta le leggi», come dimostrerebbe quanto accaduto a Sparta, dove, secondo lui, sarebbero esistite «sin da principio delle buone ragioni perché la licenza femminile si facesse strada». Gli spartani infatti vivevano a lungo e spesso lontani, impegnati in guerra, e il legislatore (scil. Licurgo) non si sarebbe occupato a sufficienza delle donne, cosi che queste vivevano «senza freno, rotte a ogni sregolatezza e lussuria», con tutte le conseguenze negative portate dal fatto che esse potessero prevalere sugli uomini, come era accaduto agli spartani «nel momento in cui comandavano».

Presumibilmente Aristotele pensava al periodo intercorso tra la sconfitta degli ateniesi nella guerra del Peloponneso e quella degli spartani nel 371 a. C. ad opera dei tebani a Leuttra. Durante quel periodo, secondo lui, Sparta era stata governata dalle donne: «infatti, – come aggiunge alla fine del passo sopra citato, – che differenza c’è tra un governo in cui comandano le donne, e quello in cui i governanti maschi esercitano la loro autorità sotto il dominio femminile?»

Che dire di fronte a una simile incredibile rappresentazione di una sorta, se non di matriarcato, quantomeno di ginecocrazia spartana? E come impedirsi di ricordare che l’Occidente deve in gran parte a lui la teorizzazione di un rapporto tra i generi improntato al concetto di una «naturale» inferiorità delle donne? Povere donne, inferiori al punto di non possedere pienamente il bouleutikon, vale a dire la capacità di deliberare, per cui – come scrive nella Politica – è «naturale», appunto, che l’uomo comandi e la donna sia comandata. Dispiace dirlo, ma è difficile non pensare ai milioni e milioni di donne che il prestigio delle sue teorie, nei secoli, ha contribuito a far vivere nel segno della subalternità.

Questo, dunque, quel che la grande maggioranza dei Greci pensava delle donne spartane, e che per molto tempo ha influenzato anche la letteratura moderna in materia, inducendo parte di essa a sospettare che la libertà concessa alle spartane si traducesse, nei fatti, in una incontrollata licenziosità, giustamente negata da Paul Cartledge nell’articolo sopra citato, intitolato appunto Spartan Wives. Liberation or Licence? Le donne spartane erano libere, o sfrenatamente licenziose?

In realtà non erano né l’una né l’altra cosa. Pur godendo di una libertà indiscutibilmente maggiore di quelle di Atene erano ben lontane dall’essere delle donne «liberate», per una serie di ragioni […].

 

EVA CANTARELLA

Da “Sparta e Atene, autoritarismo e democrazia” – Einaudi

 

Foto: Rete

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