“Il gretto particolarismo dei borghesi meridionali”

 

Negli ultimi decenni, il concetto di Mezzogiorno si è dilatato fino ad abbracciare una geografia che arriva a inglobare il continente meridiano: un insieme di destini e antropologie che, pur avendo confini labili, guarda al mare come luogo di condivisione e di appartenenza, come scenario di conflitti e di lingue incomunicabili. Il Mediterraneo è tutt’altra geografia rispetto al Meridione. È un contenitore di identità capace di mettere in crisi la percezione di un Occidente stabile e inattaccabile, sicché potrebbe sembrare provocatorio ripristinare un discorso sul Mezzogiorno, osservato non sull’estensione fornita dal saggio di Franco Cassano, II pensiero meridiano (1996), ma in chiave più tradizionale, così come ci era stata consegnata da un Ottocento che aveva realizzato con successo il progetto di Unità nazionale, ma subito dopo aveva tralasciato, per varie ragioni, di perfezionarne gli esiti.

Il secolo successivo, il Novecento appunto, si sarebbe sforzato di rimediare agli errori solo in parte, occupato da problemi di più immediata urgenza, tanto da chiudere nel dimenticatoio della Storia quella che in altri decenni veniva indicata come questione meridionale, salvo ogni tanto riportare in superficie e riepilogare nelle forme più inaspettate (venate qualche volta di razzismo politico, qualche altra di revisionismo ideologico) i caratteri di una nazione che ancora oggi sembra rifiutarsi di chiudere i conti con il proprio passato e diventare una volta per sempre adulta.

Per chiudere i conti è necessario fare chiarezza, ricordare che esiste una epistemologia in chiave di meridionalismo e che essa, se davvero deve rispondere ai criteri dell’utile, non può limitarsi a sottolineare le inadempienze di un progetto politico-culturale – quello sabaudo-cavouriano – che già al suo apparire aveva mostrato segni di debolezza, prestando il fianco a polemiche che negli ultimi decenni sono sfociate in una tanto velleitaria quanto ridicola riesumazione di nostalgie borboniche.

Il Mezzogiorno, se ancora rivendica il diritto di manifestare una propria voce nei destini del Paese, deve farlo con la dignità che deriva dagli studi e nella consapevolezza di sentirsi ciò che è sempre stato: un crocevia strategico su cui tornare a rielaborare un discorso critico. Può essere utile, sulla soglia di questo discorso, ripetere ciò che suggerisce Walter Pedullà nel suo libro Il mondo visto da sotto. Narratori meridionali del ‘900 (2016):

È stata risolta la questione meridionale? Così a occhio direi di no, ma in verità non so rispondere: mi sono fatta l’idea che è insolubile o che è impossibile risolvere una questione locale in un mondo globalizzato. Sono superate tutte le grandi questioni, quasi sempre irrisolte: muoiono di vecchiaia. Esistono i problemi e il Sud è il maggiore problema politico, sociale e morale dell’Italia. È il più irrisolto ed è avvertito come immortale (Pedullà 2016, p. 14).

Il saggio di Pedullà costituisce una delle più lucide traversate del Novecento osservato dal basso, dalla parte dei piedi e non del capo. Ed è un atto di fede più che un esercizio di sfiducia, una sorta di sfida implicita lanciata contro una materia sfuggevole e robusta come quella che attiene a qualcosa di dichiaratamente irrisolto e irredimibile. È questo il tema dominante su cui si sono interrogati scrittori e poeti del Mezzogiorno, e dovrebbero continuare a farlo, pur nella consapevolezza che il Mezzogiorno non parla più con la voce al singolare, ma andrebbe declinato con accento moltiplicato e plurale. Non è più soltanto questione di rappresentazione, ma di responsabilità nei confronti della Storia, che era e rimane il punto dolente di ogni interrogativo morale e di ogni avventura culturale.

Su questo tema molto ancora resta da dire, a cominciare dalla stagione che si inaugura con il magistero di Francesco De Sanctis: non soltanto un padre della patria – un padre di una potenziale e mai realizzata patria – ma un esempio attraverso cui rinnovare la passione per le lettere alla luce di un linguaggio dotato di forti ambizioni etiche. De Sanctis è figura cardine di un certo modo di intendere la funzione intellettuale e, nel suo declinare lo studio letterario come manifestazione di un impegno civile, è già un uomo del Novecento, un letterato che ha travalicato l’arcadia mettendo a disposizione della nazione la sua intelligenza.

È breve il salto che da De Sanctis arriva alle inadempienze di una borghesia pressoché assente dall’esercizio della Storia o incapace di cogliere nell’Unità italiana l’occasione per una rivoluzione civile del Mezzogiorno. Il pensiero va a Pasquale Villari, a Benedetto Croce, ad Antonio Granisci, che sono stati i primi a individuare nel ceto intellettuale un soggetto debole, paradossalmente ancora di più rispetto ai contadini e agli artigiani.

Scrive Guido Dorso in La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia (1925):

Nella loro terribile immaturità politica, nel loro gretto particolarismo i borghesi meridionali non compresero che il loro dominio era quanto mai labile perché privo del controllo sullo Stato, non si accorsero che i loro interessi venivano manomessi, che la giustizia distributiva veniva conculcata e si lasciarono spingere sempre più nel chiuso orizzonte degl’interessi locali. Lo Stato italiano, assolutamente privo di ogni velleità etica, di fronte al chiuso  particolarismo di questa classe meridionale, ebbe un giucco assai facile, perché la sua linea di politica generale coincise con la stretta mentalità dei popoli conquistati (Dorso 2017, pp. 102-103).

Se lo Stato si è dimostrato nemico del Mezzogiorno, la responsabilità cade sulla grettezza della borghesia meridionale: questo sembra affermare Dorso nel saggio dato alle stampe nel 1925, a Torino, per le edizioni di Piero Gobetti. L’errore da evitare, però, è quello di identificare la classe borghese con la categoria degli intellettuali, non sempre sovrapponibili, nonostante abbiano in comune la caratteristica di latitare. Ma si tratta di due diverse tipologie di assenze. La prima (quella del ceto borghese) deriva probabilmente da un difetto nello sguardo, un errore di miopia che, nell’immaginario degli scrittori meridionali, a eccezione forse di pochi autori, avrebbe ridotto al minimo la presenza di questa figura cardine della modernità.

Il problema certo è numerico. A fronte di un autore come Michele Prisco, che avrebbe stabilito il proprio punto di osservazione negli interni familiari in cui si manifestava la condizione impiegatizia alle falde del Vesuvio, esiste una lunghissima schiera di scrittori, la cui dimensione narrativa si è appiattita sul Mezzogiorno contadino.

Troppo presto la letteratura del Novecento ci ha abituati a numerose dimenticanze (chiamiamole anche distrazioni), prima fra tutte il sogno di una repubblica illuminista che avrebbe riempito con un altro lessico il vocabolario della Storia, non soltanto a sud del fiume Garigliano. Quell’occasione perduta, che Raffaele La Capria considera la grande ferita del Mezzogiorno, avrebbe potuto insegnare molte verità circa il controverso epilogo della questione meridionale, ma gli scrittori di area meridionale lo avrebbero ignorato quasi del tutto – a eccezione di Enzo Striano, autore di un romanzo su ciò che accadde a Napoli nel 1799: II resto di niente (1986) -, opponendo la scelta più populista e accarezzata dagli stereotipi: quella di ridurre tutto alle contese sul latifondo e di narrare le vicissitudini dei vinti e dei gattopardi.

 

GIUSEPPE LUPO

Da “La Storia senza redenzione” – Rubbettino

Foto: RETE

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