Fame, emigrazione e innovazione alimentare.

Mangiare pane e olive

 

Alla fine dell’Ottocento l’Italia resta un paese povero, con un bilancio alimentare insufficiente. Il consumo di carne era di 16 kg annui a testa, contro gli oltre 40 della Germania, i 55 degli Stati Uniti, i 58 della Gran Bretagna. La distinzione tra due razze, due psicologie, due mentalità italiane, tra Nord e Sud, sostenuta da antropologi positivisti, ha conseguenze anche sulla creazione di due alimentazioni in termini di superiorità-inferiorità.

A inizio Novecento, Alfredo Niceforo, il maggiore divulgatore della teoria dell’inferiorità razziale dei meridionali, spiegava come la distinzione si basasse sulle differenti disponibilità di carne presenti nelle diverse parti d’Italia. La popolazione italiana, comunque, mangiava «meno e peggio» degli anglosassoni, e per il consumo della carne era all’ultimo posto fra le nazioni europee. Niceforo, come gli altri antropologi e medici dell’epoca, considerava la carne «la sostanza alimentare per eccellenza»: il suo basso consumo sarebbe stato la causa della depressione fisica e psicologica delle popolazioni latine.

Le numerose indagini statistiche (in particolare quelle di Enrico Raseri) mostravano come nel 1879 il consumo annuo di carne per individuo fosse al Nord di kg 17,9; al Centro di kg 17,3; al Sud di kg 6,4; in Sicilia di kg 5; in Sardegna di kg 12,2. Un grande divario veniva riscontrato nel consumo delle uova e anche in quello di cereali, oltre che per zucchero e caffè, simboli di un maggiore benessere.

Al Sud si consumavano un po’ più frumento e in misura più o meno uguale legumi freschi e secchi. Il Sud era «essenzialmente vegetale», mentre il Nord era «principalmente carnivoro»: questa una delle ragioni della statura media o piccola, dell’aspetto emaciato, dello scarso sviluppo muscolare, del difetto di energia, della tendenza all’ozio, della depressione e dell’infelicità dei meridionali (Niceforo, 1901). Nelle due Italie «dissimili e diverse», il Sud era inferiore anche nei consumi alimentari e tale sarebbe rimasto fino a tutti gli anni cinquanta e in parte degli anni sessanta.

Questa inferiorità sarebbe stata poi vista, ripresa, riconsiderata quasi come un vantaggio e una fortuna da biologi e studiosi che cominceranno a stigmatizzare l’alimentazione grassa e altamente proteica come causa di malesseri. Ma all’epoca, in un’Europa che usciva da poco dalla fame, le mitizzazioni di una sana alimentazione vegetariana erano di là da venire. Il problema era quello di mangiare e possibilmente la carne, da cui le popolazioni si sentivano escluse.

Ho avuto modo di scrivere come l’emigrazione fra Ottocento e Novecento abbia rappresentato una causa di grande trasformazione dei consumi alimentari sia nei luoghi di partenza sia in quelli d’arrivo. A contatto con nuove disponibilità, gli emigrati italiani in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti, in Canada modificano i loro comportamenti alimentari. Nonostante i disagi iniziali, nelle Americhe i contadini familiarizzano lentamente con carne, uova, latte, formaggi, liquori, caffè. Anche gli italiani che non avevano mai mangiato pasta proprio negli Stati Uniti si scoprivano e diventavano «mangiamaccheroni». Un consumo elevato di carne è riscontrato nei regimi alimentari dei coloni veneti che sono impiegati in alcune aziende agricole del Brasile a fine Ottocento. In Argentina il consumo di carne descritto nelle corrispondenze dei veneti è di gran lunga superiore a quello registrato nei paesi d’origine. I racconti dei piemontesi giunti in Argentina vertono su scorpacciate di carne. Si tratta di una novità che capovolge «la gerarchia alimentare di alcune aree rurali del Piemonte, dove la polenta era spesso l’esclusivo piatto quotidiano delle diete contadine ottocentesche».

Per i contadini «vegetariani» si compie una rottura secolare sul piano della dieta, del gusto, della cultura e della mentalità. L’emigrazione contribuisce in maniera decisiva a interrompere il tradizionale circolo vizioso clima-carestia-fame che teneva il contadino vincolato alla terra e soggetto ai baroni. Mentre prima le «provviste» erano prerogativa dei ceti benestanti, dopo l’emigrazione anche i contadini cominciano a conservare prodotti della terra, a creare piccole riserve di cibo in previsione di periodi di difficoltà. Finalmente essi raggiungono una certa sicurezza, godendo di una provvisoria abbondanza.

Davanti a nuove possibilità, il modello di frugalità, sobrietà, parchezza del contadino entra subito in crisi, a conferma di quanto fosse esito più di necessità che di scelta. L’individuo può adesso sperare che nell’arco di una vita riuscirà a modificare le iniziali situazioni sfavorevoli.

Mutano le condizioni igienico-sanitarie, la bassa statura, la magrezza, la  debilitazione fisica e la «degenerazione» psicologica delle classi povere italiane, in particolare di quelle meridionali.

 

VITO TETI

Da “Fine pasto” – Einaudi

Un libro coinvolgente.

Foto: RETE

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