HILLMAN: “Marte e la guerra”

 

Chi ha visto il film Patton, generale d’acciaio, ricorderà la scena in cui il generale americano, comandante della Terza Armata nel 1944-1945, mentre attraversa la Francia diretto in Germania ispeziona un campo dopo la battaglia. Terra sconvolta, carri armati incendiati, cadaveri. Il generale prende tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia e, posando lo sguardo su quella devastazione, esclama: « Come amo tutto questo. Dio mi perdoni, lo amo più della mia vita».

Quella scena mette a fuoco il mio tema: l’amore della guerra, l’amore nella guerra e per la guerra che è più forte della vita, un amore che evoca un dio, che è alimentato da un dio, che si manifesta sul campo di battaglia, un lembo di terra devastata reso sacro da quella devastazione.

Sono convinto che non potremo mai parlare con costrutto di pace e di disarmo se non penetriamo in questo amore della guerra. Se non entreremo nello stato in cui l’anima è marziale, non potremo comprendere la forza di attrazione della guerra. E in questo speciale stato dell’anima bisogna entrare in modo rituale: dobbiamo essere « arruolati », e la guerra deve essere « dichiarata » (così come si è dichiarati pazzi, uniti in matrimonio o insolventi). Dunque proveremo ora ad « andare alla guerra »; e questo in base a un principio fondamentale del metodo psicologico secondo cui qualunque fenomeno, per essere compreso, va immaginato empaticamente. Per conoscere la guerra dobbiamo penetrare nell’amore della guerra. Nessun fenomeno psichico può essere scardinato dalla sua fissità se prima non spingiamo l’immaginazione fino al suo cuore.

La guerra è un tema della psicologia, che Freud riconobbe e trattò in diversi scritti. È un tema che tocca alla psicologia affrontare, perché la filosofia e la teologia non hanno saputo coglierne la suprema importanza. La guerra è stata delegata alla storiografia, di cui diventa un sottocapitolo denominato « storia militare ». Oppure è stata espulsa dalla corrente principale del pensiero e affidata ai think-tank. Occorre dunque interrompere questa rimozione generale e cercare di applicare alla guerra una immaginazione che sappia rispettare la sua primordiale pregnanza.

Il mio metodo, che consiste nel prendere di petto, nel penetrare dritto al cuore, anziché girare intorno o riflettere, è esso stesso marziale. Dunque entrando direttamente in argomento, ci troveremo a invocare il dio del nostro argomento.

Nei cinquemilaseicento anni di storia scritta, sono state registrate almeno quattordicimilaseicento guerre: due o tre guerre per ogni anno di storia umana. Prendendo spunto dal libro di Edward Creasy, che descrive quindici battaglie decisive, ci è stato insegnato che i momenti di svolta della civiltà occidentale avvengono in coincidenza di battaglie come Salamina e Maratona, Cartagine, Tours, Lepanto, Costantinopoli, Waterloo, Midway, Stalingrado… La determinazione ultima del destino storico, ci viene insegnato, dipende dalle battaglie, il cui esito dipende a sua volta dal genio invisibile di un capo o eroe, attraverso il quale si manifesta uno spirito trascendente. La battaglia e la sua incarnazione personificata diventano, nella storia secolarizzata, rappresentazioni salvifiche. Le statue dei nostri parchi, i nomi delle vie più maestose e le festività civili del nostro calendario commemorano l’aspetto salvifico della battaglia.

Trascurate da Creasy sono le migliaia di battaglie non decisive, combattute con pari eroismo e tuttavia terminate in maniera incerta o comunque non favorevole al vincitore finale della guerra; e queste battaglie non hanno prodotto epopee, statue o celebrazioni commemorative. Eroi senza cantori, morti invano, cause perse. La ferocia del combattimento può avere poco a che vedere con il suo esito, il suo esito poco a che vedere con l’esito della guerra. Verdun, nella Grande Guerra del 1914-1918, ne è un esempio: un milione di morti e nessun esito decisivo. L’importanza, il significato di una battaglia non è dato dalla guerra, ma dalla battaglia stessa.

Oltre alle battaglie e ai loro monumenti, le epopee monumentali che stanno alle radici delle lingue occidentali sono in notevole misura « libri di guerra » : il Mahàbhàrata con la Bhagavad Gita, l’Iliade, l’Eneide, il Lebor Gabala Erenn dei celti, la scandinava Edda. La Bibbia è un lungo resoconto di battaglie, di guerre e di condottieri. Jahweh si presenta con discorsi da Dio della Guerra, i suoi profeti e re sono i suoi guerrieri. Perfino il Nuovo Testamento è organizzato in modo tale che il capitolo finale, l‘Apocalisse, che funge da appendice riassuntiva, ha come momento culminante la grande battaglia dello Armaghedòn.

Nelle elaborazioni più alte del pensiero umano, la filosofia indiana e la filosofia platonica, si immagina necessaria al benessere dell’umanità una classe di guerrieri, la quale, nella natura umana, trova il suo corrispettivo nel cuore, inteso come le virtù del coraggio, della nobiltà, dell’onore, della lealtà, della saldezza di principi, dell’amore cameratesco, sicché la guerra è collocata non solo in una classe di individui ma in un livello della personalità umana organicamente necessario al giusto funzionamento dell’insieme.

[…] Il marziale non può essere fatto derivare semplicemente dall’imperativo territoriale della nostra eredità animale: « Questo è il mio territorio, il mio spazio alimentare e procreativo; vattene o ti ammazzo». Né le guerre nascono semplicemente dal capitalismo industriale con le sue crisi economiche, dalla mistica tribale e nazionalistica, dalla giusta difesa dello Stato, dal maschilismo patriarcale, da indottrinamenti sociologici né dalla paranoia e dall’aggressività psicologiche. (Paranoia e aggressività, prese come principi esplicativi, richiedono a loro volta una spiegazione). No, le guerre non sono soltanto opera dell’uomo; testimoniano anche di qualcosa di intrinsecamente umano che trascende l’umano, in quanto evocano potenze che sfuggono alla piena comprensione umana. Non soltanto gli dèi combattono tra loro e contro altri dèi stranieri, essi santificano le guerre umane, e vi partecipano e vi intervengono, come quando nel mezzo della battaglia i soldati odono voci divine o hanno visioni divine.

E a causa di questa irruzione del trascendente che le guerre sono così difficili da dominare e da comprendere. Quello che avviene in battaglia è sempre in qualche misura misterioso, e pertanto imprevedibile, non è mai del tutto nelle nostre mani. Le guerre « scoppiano». Un tempo i generali cercavano segni nel ciclo, nel volo degli uccelli; oggi, fantastichiamo l’origine di una guerra in un incidente al computer. La dea Fortuna: nonostante i piani di battaglia più meticolosi e le ripetute esercitazioni, l’esperienza della battaglia è una ridda di sorprese.

Ci occorre dunque una spiegazione della guerra che metta in conto il suo momento trascendente, una spiegazione che si ancori nelle archài, i princìpi primi dei greci: archè, non solo come in « arcaico», termine delle spiegazioni storiche, ma come in « archetipico», che evoca lo sfondo trans-storico, quel momento di epifania divina che è nella guerra.

L’approccio archetipico afferma che gli eventi sempre ricorrenti, ubiquitari, altamente ritualizzati e carichi di passioni sono governati e strutturati da fattori psichici fondamentali. Tali fattori sono dati con il mondo come modalità della sua natura psicologica, un po’ come le modalità di comportamento degli atomi sono date con la natura fisica del mondo e gli schemi del comportamento istintuale sono dati con quella biologica.

 

JAMES HILLMAN

Da “Le figure del mito” – Adelfi

Foto: RETE

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