SAPRI? Per Cavour un successo

Carlo Pisacane

II 21 gennaio 1860 il conte di Cavour, con l’energico avallo di sir James Hudson, plenipotenziario inglese a Torino, venne richiamato al potere da re Vittorio Emanuele II; la firma del trattato di Zurigo aveva infatti permesso di superare l’impasse di Villafranca. Al tempo stesso Rattazzi e La Marmerà, che avevano preso il posto dello statista subalpino dopo la sua melodrammatica uscita, si erano mossi goffamente sulla scena politica, scontentando il mondo politico piemontese e peccando di dilettantismo nei confronti dell’alleato francese. […]

Riassumendo la guida del gabinetto sardo egli aveva la possibilità di riprendere in mano le fila del riassetto statale della penisola, pilotandone la ricomposizione unitaria sotto l’unica corona di Casa Savoia. Per prima cosa, il 29 febbraio 1860, provvide a convocare le elezioni per la VII legislatura, allargata ai nuovi rappresentanti padani, romagnoli e toscani. Successivamente, pur manifestando un’iniziale contrarietà per intempestive avventure militari che avrebbero potuto indisporre l’alleato francese, ritardando la sua partenza da Roma, finì con l’adeguare la sua linea politica a quella, più avventurista, incoraggiata dal re; preoccupandosi, però, di non perdere i contatti con Londra e Parigi ed evitando, nei limiti del possibile, di mettere le due capitali di fronte alla politica del fatto compiuto. Fu così che, pur giudicando la spedizione di Garibaldi «fatto gravissimo» agevolò efficacemente la diplomazia militare di Vittorio Emanuele II volta ad estendere la sovranità del governo sardo sul Regno delle Due Sicilie, lasciando al tempo stesso intendere che tutto si fosse svolto alle sue spalle. […]

Non ci meraviglierà, dunque, che Cavour – tuttora accreditato come convertito in ritardo al progetto unitario – nel corso del triennale sviluppo della crisi di Crimea avesse ipotizzato, in tre distinte occasioni, un colpo di mano su Napoli. Ne da conto lo storico Adolfo Omodeo, proponendo una ricostruzione dei tre tentativi basata sugli scritti del patriota napoletano Giovanni La Cecilia e del generale Giacomo Durando. Vi furono quindi contatti organici tra il conte di Cavour e un gruppo di esuli meridionali – Giovanni La Cecilia, Domenico Mauro, Antonino Plutino – tuttora percepiti come democratici di osservanza mazziniana. Contatti poi confermati e qualificati riduttivamente come «maneggi» dalla vasta biografia che lo storico Rosario Romeo ha dedicato allo statista subalpino.

Ma torniamo al racconto di Giovanni La Cecilia che, scrivendo a ventidue anni di distanza dagli avvenimenti colloca la vicenda nel febbraio 1854, durante la guerra di Crimea, dedicandogli le ultime pagine delle sue Memorie. Cavour in più incontri segreti si era impegnato a smobilitare 500 bersaglieri e 100 ufficiali sardi; da civili li avrebbe dotati sotto banco di 5000 fucili e di un fondo-spese di due milioni, ai fini di uno sbarco di sedicenti volontari a Reggio Calabria. In caso di riuscita del colpo di mano, sarebbero seguite altre spedizioni di fuoriusciti italiani e ungheresi. Dopo che «i fucili erano già spediti in Sardegna [e] si cominciavano a distribuire i congedi ai bersaglieri», l’operazione non ebbe più seguito a causa dell’intromissione di Napoleone III, desideroso di coinvolgere Ferdinando II di Borbone nella guerra di Crimea, facendo di Brindisi la sede degli ospedali militari alleati.

Una seconda volta, nell’aprile 1855, stando al Diario del generale Giacomo Durando, Cavour aveva tentato di approfittare della mobilitazione sarda per la Crimea, ipotizzando una sospensione della partenza per l’Oriente e la «conquista di Napoli colla nostra spedizione», grazie a uno sbarco nel golfo. Secondo Adolfo Omodeo, il conte di Cavour voleva trarre vantaggio dalla neutralità filo-russa di re Ferdinando, provocando «un’occupazione del regno di Napoli simile a quella che gli anglo-francesi avevano fatto del regno di Grecia». Il generale Durando scrisse nel suo Diario che «i furori bellicosi di Cavour» si erano calmati solo quando aveva dovuto prendere atto della superiorità militare della marina da guerra napoletana.

Il terzo progetto risaliva alla primavera 1856, quando Cavour sperava di poter godere dell’appoggio anglo-francese per organizzare «un colpo di mano da compiersi colla legione anglo-italiana», il corpo militare addestrato ed equipaggiato dagli inglesi per la guerra di Crimea e mai utilizzato nello scacchiere orientale. Nel Carteggio Cavour c’è un esplicito riferimento a quest’ultimo progetto: visto che il congresso di Parigi non aveva prodotto compensi territoriali al Regno di Sardegna, si trattava di «procurargli la Sicilia con un mezzo extralegale»; occupata Palermo, la legione anglo-italiana vi avrebbe innanzi tutto proclamato l’indipendenza dell’isola e, successivamente, la riunione al Piemonte. Per realizzare quest’idea, definita dallo stesso Cavour «ardita, ma non assurda», lo statista subalpino contava di procurarsi niente meno che l’appoggio del premier inglese lord Palmerston, il quale era la cautela fatta persona. Venendone però sconsigliato dallo stesso ambasciatore sardo a Londra, che gli ricordò che «sarebbe stato più dignitoso non domandare più nulla, nel timore di rifiuti accompagnati da un’attenuazione di stima per le nostre tendenze predatrici».

La stessa infelice spedizione di Carlo Pisacane il 25 giugno 1857, concepita per scatenare l’insurrezione nelle campagne napoletane e rovesciare il trono dei Borboni, aveva avuto in Genova una base di partenza e appoggio nota alle autorità sarde di governo e di polizia, che si erano ben guardate dall’impedirne la partenza. Non si deve dimenticare che il piroscafo Cagliari, utilizzato per la spedizione, apparteneva alla Società di navigazione Rubattino di cui era azionista il governo sardo e svolgeva abitualmente contrabbando di armi sulla rotta Genova-Tunisi. Va aggiunto che in quell’occasione il livello di dilettantismo fu tale che il piroscafo Cagliari, invece di fare rotta sulle isole di Ventotene o Santo Stefano dove erano reclusi i politici del Quarantotto napoletano, approdò a Ponza dove liberò un paio di centinaia di piccoli delinquenti comuni. Questi ultimi, una volta sbarcati sulla terraferma, tentarono frequentemente di disertare e, nello scontro a fuoco con il battaglione cacciatori del colonnello Ghio, dettero un contributo decisivo alla disfatta della spedizione. Carlo Pisacane morì in circostanze mai del tutto chiarite, forse suicida o colpito dai forconi dei contadini; si salvò invece Nicotera.

Ora, riguardo alla sua partecipazione all’impresa va spesa qualche riflessione. Giovanni Nicotera era ufficialmente il braccio destro del Pisacane, ma lo storico Nello Rosselli – sulla scorta della corrispondenza della giornalista garibaldina Jessie White Mario – espresse il «sospetto» che la sua partecipazione «fosse stata in qualche modo consigliata o autorizzata da Cavour». Questo non deve meravigliarci, dato che anche l’impresa dei Mille ebbe caratteristiche analoghe. Infatti, i principali collaboratori di Garibaldi erano legati a Cavour (Nino Bixio, Enrico Cosenz, Giacomo Medici) o al re (Gaetano Trecchi, Istvàn Tùrr); di suo il «Duce dei Mille» ebbe solo Giuseppe Sirtori che era un isolato e il segretario Giuseppe Guerzoni che, come dimostra il suo libro su Bixio, era in grado di partecipare ai principali fatti della campagna senza penetrarne a fondo il senso. Non è dunque la natura di agente cavouriano a screditare Giovanni Nicotera, quanto piuttosto il fatto che dopo l’arresto si rivelò un virtuoso della collaborazione di giustizia, parlando a vanvera di tutto e di tutti, rivelando nomi di persone che gli dovettero anni di carcere duro senza neppure venirne indennizzati dopo l’unità.

L’inevitabile condanna a morte fu poi commutata in ergastolo da Ferdinando II di Borbone «nella sua inesauribile sovrana clemenza», come recitava il dispaccio del ministro della Giustizia. Cavour non dovette però rimanere soddisfatto del comportamento complessivo dell’avventuriero calabrese, tanto da ricordarsene nel 1860, quando Nicotera tentò di organizzare una sua legione in Toscana per invadere lo Stato Pontificio con il sostanziale beneplacito di Bettino Ricasoli. Piovvero allora i fulmini del conte su entrambi, il dittatore e l’emigrato, ma soprattutto su Nicotera «il quale s’intitola [va] da sé colonnello brigadiere di una Brigata che non esiste[va] nei quadri dell’Armata». Il Carteggio rivela un livore verso «il sedicente colonnello Nicotera» che Cavour non riservava ad altri agitatori. Un livore forse ingiustificato, dato il successo dell’impresa del 1857, ma, intendiamoci, successo politico, non certo militare. D’altra parte solo Giuseppe Mazzini e Jessie White Mario potevano essere convinti che il verboso e collerico Pisacane – «aveva scatti improvvisi… collere che lo trasformavano… guai a contraddirlo!» – potesse riuscire a conquistare Napoli con sessanta schioppi affidati a una banda male assortita piena di delinquenti comuni, quando era noto che alla spedizione erano voluti rimanere estranei Giuseppe La Masa, Giacinto Carini ed Enrico Cosenz, cioè quanto di meglio potesse contare l’emigrazione meridionale in campo militare/e che troveremo, invece, con Garibaldi nel 1860.

Cavour, che era un tattico dallo straordinario intuito, fu pronto a trasformare una disfatta prevedibile in un clamoroso successo diplomatico a più facce, giocato sulla tuttora poco conosciuta vicenda del piroscafo Cagliari che era stato utilizzato dalla spedizione Pisacane per giungere a Ponza e sbarcare a Sapri. In base al diritto internazionale marittimo e ai codici della navigazione dei principali Stati europei, l’azione violenta con cui Pisacane si era impadronito della nave era qualificabile come atto di pirateria. Anche una volta sbarcati i rivoluzionari, il Cagliari, qualunque fosse stato il vessillo inalberato, doveva essere considerato una nave pirata bloccabile in mare aperto da una crociera da guerra di una qualsiasi potenza europea. Abbordato in mare dalla Marina napoletana e considerato «buona presa» il vapore venne confiscato dalle autorità borboniche e qui, per loro, cominciarono i guai.

Se il Regno di Sardegna fosse stato un paese industrialmente avanzato, in grado di armare le proprie navi mercantili con propri equipaggi, l’intera vicenda si sarebbe chiusa con una confisca. Viceversa, trattandosi di un paese arretrato che non disponeva delle adeguate competenze tecniche in misura sufficiente per garantire pubblici servizi, utilizzava tecnici inglesi per i macchinari a vapore delle navi e, quasi certamente, delle locomotive. Fortuna volle che sul Cagliari risultassero imbarcati i due macchinisti inglesi Henry Watt e Charles Park: questo solo fatto bastò per trasformare l’intera vicenda in un caso internazionale. Dopo un tormentato semestre di trattative che dette molto lavoro alle «Commissioni del contenzioso diplomatico» di tre Stati – Sardegna, Due Sicilie, Inghilterra – quando stava per passare la proposta inglese di rimettere l’intera questione all’arbitrato di una potenza estranea (Svezia o Portogallo), ci fu un colpo di scena favorevole al governo sardo.

Cavour non voleva l’arbitrato internazionale che si sarebbe concluso con la liberazione degli incolpevoli macchinisti e la confisca per «buona presa» del piroscafo Cagliari. Sottoposto a una pesante campagna di stampa anti-borbonica, il governo conservatore inglese guidato da lord Derby e da Disraeli, scavalcò la «Commissione del contenzioso diplomatico» del ministero degli Esteri, presentando un ultimatum al governo di Napoli. Qualora Napoli non avesse riconsegnato immediatamente il vapore, scarcerando e indennizzando i macchinisti inglesi, il governo britannico avrebbe adottato immediate misure di embargo nei confronti del commercio napoletano, accompagnate da azioni di rappresaglia affidate alla Mediterranean Fleet di stanza a Malta. Il governo napoletano – scrisse il ministro degli Esteri Carafa a lord Malmesbury – «non ha mai immaginato né può immaginare di avere i mezzi da opporsi alle forze di cui potrebbe disporre il governo di Sua Maestà britannica»; fu quindi costretto a cedere su tutta la linea, rompendo successivamente le relazioni diplomatiche con Londra, Parigi e Torino.

Era l’8 giugno 1858. In quel preciso momento il Regno delle Due Sicilie era nelle medesime condizioni di isolamento internazionale in cui si era trovato il Regno di Sardegna dopo la disfatta di Novara nel 1849; con la significativa differenza che nell’orizzonte ministeriale napoletano era difficile rintracciare un d’Azeglio o un Cavour. Il conte aveva dunque vinto su tutta la linea; anche se in quel momento e per i successivi due anni «i maccheroni non [erano] ancora cotti», molto presto sarebbero stati in tavola, visto che era già stato precostituito lo scenario di isolamento internazionale che avrebbe reso possibile la spedizione dei Mille.

La crisi Pisacane era durata un anno, dall’infausta partenza insurrezionale, il 25 giugno 1857, al felice epilogo diplomatico dell’8 giugno 1858. Nel frattempo, Cavour si era anche tolto la soddisfazione di eliminare uno scomodo collaboratore, mettendolo nelle condizioni di uscire dal governo. La spedizione di Sapri non era forse partita da Genova senza che la polizia locale, allertata, facesse nulla per impedirlo? Fu così che, a giochi fatti, dell’infausto esito militare dell’impresa di Sapri finì col pagarne le spese il solo Urbano Rattazzi, un ministro dell’Interno troppo legato alla corte per collaborare con Cavour, tanto da indurre quest’ultimo a sbarazzarsene al primo pretesto, il 15 gennaio 1858. […]

 

ROBERTO MARTUCCI

Da “L’invenzione dell’Italia unita” –  Sansoni

Foto: RETE

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