Immaginiamo un greco antico che entra nella macchina del tempo e ne esce [nel 2024]. Certamente, le Olimpiadi che vi si svolgono quest’anno gli riserverebbero non poche sorprese, e lo costringerebbero a porsi una serie di domande alle quali non saprebbe come rispondere, e che anche a noi – se dovessimo farlo – sarebbe difficile spiegargli.
Cominciamo dalla prima cosa che sarebbe forse, anzi certamente, quella per lui più incomprensibile, per non dire sbalorditiva: la totale assenza dei simboli e delle cerimonie religiosi, onnipresenti e fondamentali ai Giochi di Olimpia. Come spiegargliela? Le sue Olimpiadi erano una festa istituita, come diceva il mito, in onore di Zeus e tali erano rimaste nel corso della loro lunga storia.
Certamente, si potrebbe cominciare col dirgli che oggi i Giochi non sono riservati a un solo popolo […]: vi partecipano atleti provenienti da ogni parte del mondo e di ogni religione. Ma non sarebbe affatto facile spiegargli che oggi (tranne per i seguaci della religione islamica e di quella hindu) la religione appartiene a una sfera separata rispetto a quella dello Stato: nel mondo greco questa distinzione non esisteva.
E anche al di là di questo, al nostro antico greco rimarrebbero altre perplessità. Ad esempio: perché è scomparsa la gara di tromba? E che fine ha fatto quella degli araldi? A Olimpia, il giorno dell’inaugurazione si decideva chi avrebbe annunciato le gare e i vincitori: l’onore sarebbe spettato al trombettiere che aveva più fiato e all’araldo che aveva più voce. Niente a che vedere con una gara musicale, beninteso, ma la competizione era comunque molto attesa.
Non meno perplesso lo lascerebbe l’arrivo di un corridore con in mano una fiaccola. A Olimpia non accadeva nulla di simile. Anche se durante il periodo di celebrazione dei Giochi veniva tenuto acceso un fuoco, l’arrivo di un uomo, di corsa, con una fiaccola in mano è un’innovazione: oggi, infatti, diversi mesi prima della cerimonia di apertura, a Olimpia viene accesa una fiaccola, destinata a raggiungere grazie a una staffetta di tedofori (“portatori di fuoco”) – e se necessario usando i mezzi di trasporto idonei – la città che ospita i Giochi. E qui l’ultimo tedoforo si serve della fiaccola per accendere la fiamma in un apposito braciere.
Ma, come dicevamo, a Olimpia non accadeva nulla di simile: anche allora, infatti, esistevano corse con la fiaccola (lampedromie), ma erano competizioni locali, durante le quali uomini nudi portavano torce infiammate da un altare all’altro, e in occasione di alcune vittorie si concedeva al vincitore il privilegio di accendere il fuoco sacrificale.

Opliti greci schierati secondo lo schema a falange in una raffigurazione moderna
A tutto questo, per il greco antico catapultato [nel nostro tempo], si aggiungerebbe lo stupore per l’esistenza di una gara di corsa chiamata maratona, dal nome di una città a lui ben nota. Chi non sapeva, in Grecia, che a Maratona, nel 490 a.C, si era combattuta una battaglia epocale? Il nome di Maratona evocava nei greci la memoria di uno dei momenti più importanti della loro storia: nella pianura così chiamata, a circa quaranta chilometri da Atene, il loro esercito aveva sconfitto quello di Dario, che aveva attraversato il mare per sottometterli.
Al nome di Maratona, il nostro greco a [oggi] sarebbe travolto dai ricordi: i soldati nemici – per non parlare dei loro mezzi bellici – erano infinitamente più numerosi di quelli greci. A Maratona, in quel momento, si giocava il destino della Grecia. La sconfitta sarebbe stata la fine della libertà, di quell’autonomia di cui andavano fiere le poleis, nelle quali vivevano cittadini, non sudditi sottomessi a un re, come i persiani. Loro, i greci, si autogovernavano, si davano le leggi, decidevano autonomamente la loro politica. Avevano facoltà di parola nelle assemblee, godevano tutti di uguali diritti. I persiani, ai loro occhi, erano schiavi: diventare come loro, peggio della morte.
Prima della battaglia, consapevoli della gravità della situazione e dell’inferiorità numerica, gli ateniesi avevano chiesto aiuto ai plateesi e agli spartani, ma Platea aveva mandato soltanto mille uomini e Sparta tardava a inviare rinforzi. Sostanzialmente, gli ateniesi erano soli. Ma avevano vinto, grazie al loro disperato coraggio, e grazie al genio militare di Milziade: in quell’occasione, il generale aveva sperimentato una tattica di sua invenzione che costrinse il nemico alla ritirata. Per evitare di essere accerchiato, Milziade aveva infatti schierato l’esercito su un fronte molto ampio, e al centro dello schieramento aveva collocato gli opliti, su tre file. Quando questi avevano sferrato l’attacco, il cielo era stato oscurato dai loro dardi. Sul campo, alla fine, erano rimasti 6400 morti persiani e 192 greci. Ai persiani sopravvissuti non era restata che la fuga.
Per gli ateniesi, Maratona era la battaglia. Ne erano orgogliosi al punto che Eschilo, che vi aveva partecipato, volle che sulla sua tomba, a Gela, venisse scritto: “II suo valore conobbe la piana di Maratona, e il medo chiomato, che lo provò”.
Tutto questo passerebbe, in un lampo, nella mente del nostro greco [nel 2024], lasciandolo a interrogarsi, sconcertato, sulla relazione tra quello che il nome Maratona evoca in lui e una gara podistica.
Per chiarirgli le idee, qualcuno dovrebbe spiegargli che si tratta di un omaggio all’ateniese Fidippide, che al termine dell’estate del 490 a.C. (alcuni parlano del 10 agosto, altri del 12 settembre) aveva percorso correndo i quarantadue chilometri che separavano la pianura in cui la battaglia si era svolta dalla città di Atene, per annunciare la vittoria.
Chi era esattamente costui? Le informazioni sono scarse e contrastanti. Qualcuno parla di lui come di un campione olimpico, altri come di un emerodromo, uno di quei professionisti che potevano correre per un giorno intero (come dice il loro nome) al fine, appunto, di portare le notizie. Si raccontava anche che, quando si era saputo che i persiani erano a Maratona, gli ateniesi avevano mandato Fidippide a Sparta a chiedere aiuto, e che questi aveva percorso correndo, andata e ritorno, la distanza tra le due città. Forse aveva fatto anche questo prima di correre da Maratona ad Atene, dove, raggiunta la città, era caduto stremato al suolo ed era morto annunciando ai suoi concittadini: “Rallegratevi, abbiamo vinto”. Chissà, alla fine forse questa storia aiuterebbe il nostro greco […] a capire perché, a millenni di distanza dalla morte di Fidippide, esiste una gara che si chiama maratona.
Ma al di là di quanto sarebbe possibile in qualche misura spiegargli, di alcune cose davvero non potrebbe farsi una ragione: più specificamente, mai e poi mai capirebbe il senso della frase che tutti vanno ripetendo: “L’importante è partecipare”.
Ma come? ! La vittoria per lui, come per ogni greco, era la dimostrazione della capacità di raccogliere le sfide e di affrontarle, superando gli altri, e in primo luogo se stessi. Alle Olimpiadi, come in qualunque gara, in qualunque momento della vita che imponeva una competizione, per i greci l’importante era vincere.
A questo punto bisognerebbe spiegargli che nel XIX secolo d.C. un tale de Coubertin – che certamente amava molto i greci, ma altrettanto certamente ben poco li conosceva – aveva enunciato quello strano motto.
Ma finalmente, superata ogni sorta di sorpresa e di sconcerto, il nostro greco troverebbe un elemento che gli farebbe pensare che le sue Olimpiadi e quelle di oggi qualcosa in comune in fondo ce l’hanno. A farlo giungere a questa conclusione sarebbe il pensiero di quella che i greci chiamavano la “tregua sacra”.
In occasione delle Olimpiadi, infatti, in terra greca veniva proclamata una tregua tra le diverse città che partecipavano ai Giochi, che in quei mesi si impegnavano a dimenticare inimicizie e conflitti. Per garantire questa tregua, agli eserciti in arme veniva vietato di entrare nell’Elide, la regione dove si svolgevano i Giochi. Le Olimpiadi erano un’occasione che ricordava ai greci l’importanza dello stare insieme, del sentirsi uniti in nome di un patrimonio culturale comune, mettendo da parte – quantomeno temporaneamente – incomprensioni e ostilità. Così come oggi fa – o dovrebbe fare – per qualche giorno chi partecipa come atleta o come spettatore ai Giochi olimpici. Come allora – e oggi come non mai – le Olimpiadi offrono un’occasione per comprendere che la consapevolezza dell’appartenenza a un sistema comune di valori è la sola arma in grado di affrontare e combattere forze disgregatrici che oggi giungono a mettere in discussione la possibilità stessa di una convivenza civile sul pianeta.
- CANTARELLA – E. MIRAGLIA
In “L’importante è vincere” – Feltrinelli
Foto: RETE