Cosa cambia per le donne con la diffusione del cristianesimo?

Costantino e la madre, Elena, in una icona ortodossa bulgara

 

La predicazione di Cristo agì in profondità, portando innovazioni radicali nel rapporto tra sessi e mettendo in discussione, al tempo stesso, le concezioni ebraiche e quelle romane.

Alle soglie del Nuovo Testamento, il matrimonio per gli ebrei era sacro, ma l’organizzazione e l’ideologia familiare erano tutt’altro che favorevoli alle donne. Vista solo come strumento della procreazione e considerata un essere inferiore, la donna era totalmente sottoposta al potere maschile, e in particolare a quello del marito, che poteva avere più mogli e ripudiarle a suo piacimento.

Per Gesù, invece, il matrimonio era monogamico e indissolubile. Ai farisei, che per provocarlo avevano chiesto se fosse consentito il ripudio, egli aveva risposto spiegando che l’uomo, al momento del matrimonio, lasciava il padre e la madre per volontà divina, così da essere con la moglie “una sola carne”: e che nessuno, quindi, doveva e poteva separare ciò che Dio aveva congiunto.

Anche per i romani quindi (che a differenza degli ebrei erano monogami) la predicazione di Cristo era rivoluzionaria: il divorzio, come sappiamo, era molto diffuso, e ammesso da un’età antichissima. Non solo: un altro principio predicato dai cristiani scuoteva una certezza secolare dei romani. Uomo e donna, secondo Gesù e i suoi seguaci, avevano pari dignità nel matrimonio. Il marito, scriveva Paolo nella prima Lettera ai Corìnzi, “renda alla moglie ciò che le deve, e lo stesso faccia la moglie verso il marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma il marito; e così pure il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non privatevi l’un dell’altro, se non di comune accordo per un tempo determinato, per attendere alla preghiera; poi ritornate di nuovo insieme, affinché Satana non vi tenti, a causa della vostra incontinenza”. E nella Lettera ai Galati, più in generale, affermava che non vi doveva più essere “né giudeo, né greco; né schiavo, né uomo libero; né donna, né uomo”.

Che l’affermazione di simili principi abbia contribuito, e non poco, a dare alle donne nuova coscienza di sé e a insegnare agli uomini maggior rispetto per le donne è cosa indiscutibile.

Ma, ciò posto, un altro aspetto della predicazione cristiana va preso in considerazione. Non senza contraddizione, accanto all’affermazione della parità fra sessi, essa conteneva riferimenti espliciti alla posizione di preminenza dell’uomo nella famiglia e più in genere alla superiorità maschile: “L’uomo è il capo della donna”, scriveva Paolo nella stessa Lettera ai Corìnzi in cui pure aveva descritto il matrimonio come una relazione paritaria, “l’uomo è immagine e gloria di Dio, la donna è gloria dell’uomo”.

Il tema della subordinazione ritorna, dunque, accompagnato da un altro tema, che avrà conseguenze tutt’altro che irrilevanti: chi vive in stato di castità è più vicino a Dio di chi vive in stato matrimoniale.

“Ai celibi e specialmente alle vedove io dico: è bene per loro se rimangono come sono io. Ma se poi non si sentono di vivere continenti, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare,” scrive sempre Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi. Il matrimonio, concludendo, serve a evitare le tentazioni della carne, ma chi vive in castità è più vicino al regno dei cieli: e il principio verrà sviluppato, nei secoli successivi, in un’ottica sempre più ginecofobica. […]

La predicazione di Cristo introdusse comunque principi nuovi e dirompenti: le donne, che egli battezzava al pari degli uomini, erano per lui interlocutori, al di là della loro appartenenza sessuale. Sia la tradizione ebraica sia l’ottica con cui i romani guardavano al sesso femminile venivano superate, nella sua parola, nella prospettiva di un nuovo rapporto fra sessi, più rispettoso della personalità femminile. E, per di più, in un atteggiamento disposto a comprendere e perdonare, fra le debolezze umane, anche la debolezza e colpa più grave della donna: l’adulterio. Fu proprio Gesù, infatti, nel racconto del Vangelo secondo Giovanni, a salvare l’adultera, che gli scribi e i farisei stavano per lapidare.

Due furono dunque le religioni che, in modo molto diverso fra loro, contribuirono a far vivere le donne in modo nuovo, e le aiutarono a superare l’immagine che di sé avevano avuto per secoli: da un canto i culti orientali, e in particolare quello di Iside, dall’altro la religione di Cristo.

Le donne che vissero nei secoli in cui essi si diffusero e agirono (i secoli della massima grandezza di Roma) beneficiarono, oltre che di condizioni politiche, economiche e sociali particolarmente felici, di trasformazioni ideali di non poco conto.

Ma nei secoli che seguirono, vale a dire nei secoli del tardo impero, le cose cambiarono nuovamente. La tendenza all’emancipazione, largamente realizzata, se non altro sul piano giuridico, e, anche se avversata dalla coscienza sociale, vissuta quantomeno da uno strato della popolazione femminile, subì non solo un arresto, ma un’inversione. Le donne furono spinte di nuovo nelle condizioni di subalternità dalle quali erano in parte uscite.

 

EVA CANTARELLA

Da “L’ambiguo malanno”, Feltrinelli

FOTO: Rete

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