Il monachesimo basiliano e la grecità medioevale nel Mezzogiorno 3

Un santo pellegrino nella Magna Grecia: Gregorio il Decapolita.

Non solo la diretta appartenenza ai monasteri, ma il fatto di sentirsi protetti dalla loro ombra, che si proiettava lontano, promettevano nel buiore e nelle difficoltà dei tempi, un’esistenza meno travagliata, e davano una certa sicurezza e la possibilità di essere guidati e, in un certo senso, educati. In terre aride o sconvolte da fiumare paurose o ricoperte per vaste estensioni di boschi e sottoposte al flagello della malaria e delle avversità stagionali che non consentivano, come non consentono, una pratica efficace dell’agricoltura, i monaci basiliani furono certamente nel medioevo gli iniziatori di un sistema di conduzione agricola un po’ meno arretrata e che non sfruttasse buona parte dei terreni soltanto per la pastorizia. Le varie agiografie basiliane ci danno invece notizie sul risanamento dei terreni e sulla produzione, in vasta scala, di grano, vino ed olio come generi di più indispensabile uso e dei quali venne diffusa la coltura.

La guida data dai basiliani in agricoltura può essere estesa, senza cadere in esagerazioni, ai campi più disparati. Non tutti i monaci erano incolti, come lo provano l’insigne e vasta produzione di codici trascritti in moltissimi cenobi, l’esercizio della poesia da parte di alcuni spiriti più eletti e, probabilmente, un’attività orafa che sembra avere avuto degli esperti nelle terre ai confini calabro-lucano-campani. D’altra parte, tutti i monaci erano esperti e profondi conoscitori dell’anima umana e della vita: sì che quelli tra essi più dotati venivano, per forza di cose, chiamati ad essere i maestri, in senso molto lato, ed i consiglieri non soltanto dei fratelli più sprovveduti, ma anche delle popolazioni viventi nelle vicinanze degli asceteri e dei cenobi o incontrate nella loro dura e continua esistenza di itineranti, che rappresenta una delle caratteristiche più vive del monachesimo basiliano.

A queste popolazioni i monaci erano larghi di conforto e di assistenza spirituale e materiale provvedendo ai loro bisogni, sia in casi di calamità e di carestie, di cui parlano, tra le altre, le agiografie di Elia di Enna, di Saba di Collesano e di Luca di Demenna, con le intere provviste delle rispettive comunità, sia in casi di particolari necessità. Codesti asceti, in più, armati della fiamma inestinguibile dello spirito, non temettero di ammonire ed alzare la voce o per difendere gli oppressi contro i potenti, come Nilo di Rossano e Nicodemo del Cirò, o per rimproverare i tradimenti perpetrati verso l’imperatore, come Elia di Reggio contro il patrizio Giovanni Muzalone, o per difendere, in varie e disparate occasioni, intere popolazioni ovvero il senso di umanità calpestata. Così, Nilo di Rossano, che eresse la sua grandezza morale di fronte a funzionari bizantini e signori longobardi ed anche di fronte al papa Gregorio V e all’imperatore Ottone III.

Un altro aspetto non notato fino ad ora nello studio della così varia attività, carità e socialità dei monaci basiliani, è costituito dall’assistenza medica prodigata anche alle popolazioni e che era tanto maggiormente necessaria in tempi di assoluta ignoranza. Ciò sappiamo che avveniva da parte di Elia di Enna, allorché vagava per i deserti di Africa, ma il documento più prezioso al riguardo rimane la rara Vita di S. Saba di Collesano, la quale, in vari passi, si sofferma a trattare casi di guarigione che se talvolta, come era del resto in parte dell’indole del racconto, presentavano l’accaduto in forma taumaturgica, il più delle volte accennano esplicitamente alla perizia che il beato possedeva nel campo della pratica medica, di cui era assertore convinto, sì da essere definito, dal suo biografo, medico delle anime e dei corpi. Attività, anche questa, che ci mostra un’altra affinità tra i monaci italo-greci e quelli orientali, i quali ritenevano anche loro dovere assoluto prestare le cure, di cui avevano conoscenza, agli ammalati che incontravano nelle loro continue ed estenuanti peregrinazioni da uno all’altro eremo.

Dalle virtù eroiche e dalla ascesi, direi, sovrumana di questi monaci, dalle loro pratiche di pietà che rasentavano talora il martirio, dalla loro ferrea volontà e dalla loro santità sempre manifestate, qualità tutte che li ponevano su un piedistallo di grandezza morale, e poi dall’assistenza spirituale, materiale ed economica nasceva nelle popolazioni, che ne erano a contatto, una grande ammirazione, mista a timoroso rispetto ed affetto, che procurarono molti aderenti e proseliti. Tale ascendente via via acquistato dal monachesimo sulle popolazioni, e che portava ad un desiderio di riforme che gli animi si auspicavano, era poi tenuto vivo da un altro fattore, di cui si deve tenere il massimo conto, per avere, esso, sempre influito sull’anima individuale e collettiva degli abitanti del mezzogiorno italiano. Tale fattore è il misticismo, palese o latente, e sempre pronto a divampare alla minima occasione.

Costrette a vivere in regioni dove per lo più grami raccolti tenevano dietro, un’annata dopo l’altra, ad estenuanti fatiche cui erano legate, le popolazioni erano state da secoli condotte a meditare su una esistenza migliore da conseguire dopo una vita piamente vissuta. Ed era, questo, un premio atteso e desiderato, dal momento che non era possibile svincolarsi dalle angustie del presente, del quale era però sempre auspicato un totale rinnovamento. L’interiore religiosità, che superava l’idea della morte, quell’atteso e completo rinnovamento che non si sperava potesse venire attuato dalla religiosità ufficiale affiancata dal potere laico, nella giustizia e nella forza del quale si era perduta ogni fiducia, specialmente per le continue e sanguinose incursioni mussulmane e per i continui mutamenti e rivolgimenti politici, indirizzarono la massa, e non soltanto essa, verso il basilianesimo, dal quale si aspettava fervorosamente tutto ciò che dopo tante delusioni non si attendeva più da altre vie. Anche perché la spiritualità dei basiliani si adeguava alla mentalità popolare, e per di più parlava, diciamo, la stessa lingua, e sembrava un ardente riflesso di quella primitiva spiritualità cristiana, la quale anch’essa era approdata alle sponde del basso Jonio direttamente dalle luminose terre dell’Oriente.

A sua volta, la grande influenza che i basiliani godevano tra la popolazione, e specialmente tra le classi più umili e disagiate, venne sfruttata dai governanti. I principi longobardi, seguendo la conciliante politica papale nei riguardi del clero secolare bizantino e del monachesimo basiliano, tolleravano e spesso incrementavano l’espansione del basilianesimo, vedendo in questo austero banditore di una pace interiore ed in questo indefesso colonizzatore un fattore di tranquillità nei loro domini. Non si avvidero, però, che, proprio per mezzo suo e delle sue ramificazioni e manifestazioni, penetrava il bizantinismo nei territori che non saranno mai politicamente bizantini e nei territori insidiati e finalmente avuti dall’impero. Di tutto il fermento spirituale che bolliva nascostamente al momento della riconquista dell’Italia meridionale si avvide, pensando a sfruttarlo, l’abilissimo stratega e ancora più fine politico Niceforo Foca. Il generale aveva trovato nei territori occupati un buon numero di monaci basiliani, che, per l’amore e la venerazione che a loro si portava, avevano già in un certo senso avvicinato l’anima collettiva all’impero di cui questa si sentiva oramai far quasi parte. Perciò, pensò di fare ancora del basilianesimo una leva ed un mezzo di efficace ed attiva propaganda, e durante le campagne di guerra e nel posteriore assetto. Così, il monachesimo basiliano, che fu sempre fedele, tranne brevi parentesi, al basileus e ne godette la protezione, sia pure talvolta timorosa, divenne più potente e diffuso, fino a costituire uno degli elementi precipui della vita del tempo e del quale si tenne il dovuto conto nei momenti più delicati allorquando si ricorse al senso di prudenza e di illuminata esperienza dei grandi capi di comunità, che, per essere conduttori di anime, erano fini conoscitori dell’anima umana.

Si spiegano, così, i consigli richiesti dal catapano di Bari, Basilio, al vecchio asceta S. Vitale di Enna, nonché la scelta di S. Saba di Collesano ad ambasciatore degli imperatori bizantini Basilio II e Costantino VIII presso il loro cognato Ottone II, affinché si astenesse da quell’impresa poi naufragata miseramente nelle acque di Stilo. E non saranno soltanto imperatori e funzionari bizantini a sollecitare l’aiuto dei grandi monaci basiliani: vari principi longobardi si rivolsero a S. Nilo di Rossano, allorché questi viveva nei pressi di Capua e di Gaeta. Giovanni principe di Salerno e Mansone duca di Amalfi riottenevano, per l’amoroso intervento di S. Saba di Collesano, i rispettivi figli tenuti in ostaggio alla corte tedesca, mentre Gregorio, igumeno di un monastero di Cerchiara di Calabria, porterà le idee basiliane in Germania al seguito della consorte di Ottone II, cioè la principessa bizantina Teofane.

Per concludere: ho delineato il fenomeno della bizantinizzazione del mezzogiorno italiano, tenendo conto dei risultati dei più recenti studi. Per quanto questi, però, svalutino assai l’apporto dato ad essa dal monachesimo basiliano, la mia interpretazione del grandioso fenomeno si basa sempre sull’importanza di tale movimento, che vedo affermarsi specialmente ai tempi delle lotte iconoclastiche nei territori longobardi, facilmente raggiungibili dai lembi meridionali ed orientali della terra italiana, che promettevano agli asceti pace e sicurezza.

Affermazione monastica, dunque, che in un ulteriore momento aumentò la sua penetrazione e favorì uno spostamento di nuclei di popolazione dalla zona italiana bizantina a quella longobarda, sì da aversi alla fine un fondo presso che omogeneo, dietro la spinta data dal formarsi di entità economiche, costituite nei grandi monasteri che accolsero intorno a loro quelli che saranno gli abitanti di nuovi casali. Altrimenti, non si riesce a comprendere, e mi pare che qui stia la chiave per spiegare l’importante e complesso fenomeno, come la Lucania occidentale, dalla valle del Tanagro al mare tra Lao e Sele, la quale non fu mai politicamente bizantina, conservi ancora un ingente patrimonio, tuttora non conosciuto, di tradizioni e vestige bizantine. Tale attiva opera di colonizzazione monastica, che di questo mi pare si tratti, venne preceduta e poi coordinata da un’azione di penetrazione dei monaci anche tra le popolazioni non direttamente legate ai monasteri, le quali vennero aiutate e, specialmente, comprese nei loro aneliti e nelle loro aspirazioni e, quindi, indirizzate, ad una accettazione fiduciosa delle idee bizantine. Con il risultato che, da una parte, le popolazioni, le quali vedevano negli asceti uomini di sentimenti e razza uguali a loro, subirono il fascino della grandezza morale e della superiore spiritualità del monachesimo basiliano, dall’altra, quest’ultimo poté sempre più agevolmente espandere il suo insegnamento, preparando gli animi ad accogliere il dominio di quell’impero a cui gli asceti si sentirono in ogni momento legati.

 

BIAGIO CAPPELLI

Da “Medioevo bizantino nel Mezzogiorno d’Italia” – Il Coscile

Foto presa dalla pg. Fb dei Santi Italogreci

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