L’ideologia della morte nell’orizzonte contadino

 

 

L’ideologia della morte umana, nell’orizzonte contadino, è la decisiva emergenza di un processo più ampio che ha contrassegnato antiche civiltà religiose, come ci è stato ricordato, tra gli altri, da De Martino. «Nelle civiltà religiose del mondo antico il centro culturale della esperienza della morte non sta nell’esperienza del sopravvissuto davanti alla spoglia della persona cara, ma è in organico rapporto con quella vicenda di scomparsa e ritorni in cui l’uomo aveva appreso effettivamente a farsi procuratore di morte secondo una regola umana, inaugurando efficacemente il distacco dalle condizioni naturali: cioè la vicenda della scomparsa e del ritorno delle piante coltivate.

Arare, seminare, veder fiorire, raccogliere e veder scomparire: questa vicenda dipendeva certo in larga misura da potenze che sfuggivano al controllo umano, e tuttavia era integrata in un ordine di lavori agricoli per i quali dipendeva anche dall’uomo. Ora proprio l’urto fra questo parziale controllo umano e le immense potenze resistenti o avverse ebbe importanza decisiva nella plasmazione della morte delle civiltà antiche. […]

Come nelle civiltà protoagricole anche nelle civiltà cerealicole il raccolto chiudeva un’epoca e inaugurava un nuovo corso esistenziale, ma intanto lasciava davanti a sé un vuoto o una scomparsa, un periodo nel quale il ritorno del bene vegetale dipendeva ancora largamente da potenze umanamente non controllabili, come le avversità meteorologiche, i guasti arrecati da animali nocivi alle piante coltivate, le incursioni depredatrici di stranieri, e simili […]. Ai temi della precarietà esistenziale che nascevano dall’urto della comunità con le forze della natura si intrecciavano poi quelli che dipendevano più strettamente dall’oppressione sociale esercitata sui contadini. […]

Nell’episodio del raccolto è proprio l’uomo che, con un atto decisivo e irreversibile, e al tempo stesso economicamente necessario, si fa lui stesso procuratore di morte della pianta coltivata, avviandola alla consumazione e inaugurando così il nuovo ciclo esistenziale da percorrere. Nel caso della mietitura dei cereali è proprio l’uomo che nel modo più sensibile e pregnante — il gesto inesorabile della falce messoria — cancella dall’esistenza l’alimento fondamentale e si pone davanti ad un protratto vuoto vegetale e all’incertezza di un problematico ritorno del bene soppresso. Il raccolto pone in essere e manifesta, molto più dell’aratura o della semina e degli altri lavori agricoli, la regola culturale di un morire governato dall’uomo: ma proprio per questo rivela altresì la sterminata potenza di ciò che, nel morire culturale, resta non umano, intrinsecamente estraneo e cieco».[…]

La documentazione folklorica accertabile comprende sia dati che sembrano riferirsi direttamente all’esperienza del vuoto vegetale, sia dati ancora più ampi, articolati e compatti che attengono alla paura della perdita del raccolto e che, quindi, costituiscono una strategia di controllo magico-religiosa del timore e che, in modo indiretto, possono anche essere le spie dell’ormai silenziosa crisi del vuoto vegetale.[…]

In Calabria, in alcune zone del Nicastrese, nel giorno dei morti si procede alla semina del grano, con carattere consapevolmente propiziatorio e in Sicilia i poveri, vicari dei morti, seminano le fave, «fino a una», cibo legato ai morti, che hanno ricevuto in elemosina il 24 dicembre, giorno della vecchia.

Il giorno dei morti, in quanto tempo codificato per il loro ritorno controllato, è avvertito come stagione che sottrae al tempo la sua minacciosità irrelata e la sua potenzialità distruttrice costituendolo come tempo protetto, che include nel suo orizzonte destorificato tutti gli eventi e le azioni che si verificano e vengono compiute. Così, la semina, che solitamente inaugura un’esperienza rischiosa, in quanto realisticamente e simbolicamente strutturata come ciclo di vita e di morte, si pone, nel tempo protetto, come esperienza garantita, densa di quella energia che le deriva dal suo essere radicata e sostenuta dalla morte e dai morti, e che estende la sua ombra protettiva sulle semine he nei giorni della quotidianità dovranno vedere il contadino testimone e procuratore di morte.

In alcune aree calabresi a protezione del raccolto viene piantato un albero; si tratta di un albero che presenta particolari caratteristiche di robustezza e longevità e che, pertanto, trascende la contingenza e la precarietà del ciclo stagionale della produzione agricola, saldandola in un continuum vegetale che è possibilità e garanzia di sopravvivenza. A tale usanza possono essere associate numerose credenze popolari che stabiliscono un’ampia rete di relazioni tra uomo e pianta.

Ad esempio, «si suole quando nasce una bambina o un maschietto piantare un albero sia per ricordarne la nascita e sia per buon augurio. L’albero è scelto tra i longevi, perché cresca presto, come il pioppo: ciò dà l’idea che come cresce rigoglioso e vegeto l’albero parimenti il bambino cresce sano robusto e nutrito (Dasà). […] La buona vegetazione della ruta è un augurio per la buona riuscita di un matrimonio (Acri)».

La relazione simbiotica uomo-pianta si protrae anche in alcune immagini della cultura meridionale della morte. Una testimonianza da noi registrata a Taurianova individua in un albero vicino casa la nuova, temporanea dimora terrena dello spirito di un uomo morto in un incidente. «Mio genero è morto in Francia in un incidente. Dopo un mese siamo andati in Francia io e mio marito. Una notte, sento un passo; mio genero è entrato da me e mi toccò tutta… “Lasciami stare che ho paura”; io allungo la mano e gli tocco il braccio. Lui non ha detto niente; va verso le stanze dove erano mia figlia con i figli; fa due giri intorno al letto. Si mette in mezzo alla stanza e guarda verso il letto dov’era la moglie e poi se n’è andato. Io la mattina ho detto a mia figlia: “tuo marito è qua, in questi contorni, fino a che si compie il tempo naturale, in un albero”; vicino alla casa c’erano due alberi, uno di platano e l’altro di chachì».

A Siderno e in altri paesi calabresi la cenere del ceppo di Natale (che deve esser posto sul fuoco dal capofamiglia, mentre recita preghiere e pronuncia espressioni di augurio e che deve essere riacceso ogni sera fino a Capodanno) viene sparsa per i campi per la fertilità della terra e la sicurezza del raccolto; così come a Mandaradoni di Briatico debbono essere deposti tra il grano o nella vigna i vasi del grano germogliato portati in chiesa nella settimana santa e posti vicino al sepolcro di Cristo.

Si può parlare a questo proposito di tecniche magiche di concimazione che coesistono con quelle realistiche e che insieme tendono a rassicurare, ai diversi livelli, contro la precarietà del futuro, a propiziare e garantire un raccolto abbondante.

Anche i ramoscelli di ulivo e di palma, benedetti la domenica delle Palme, vengono portati nelle case e nei campi nella convinzione che servano a proteggere gli uomini, gli animali e il raccolto. Appare legittimo, a questo livello iniziale di analisi, individuare in tali usanze uno sfondo tematico comune consistente nella esperienza della morte — vegetale e umana — e nella connessa tensione culturale diretta a realizzare il superamento della crisi e la rifondazione simbolica di un nuovo orizzonte di vita.

Una bivalenza funzionale — controllo del rischio della scomparsa del raccolto e di quello della propria scomparsa — è dato ritrovare nella pratica rituale dei ceri della Candelora. Tali ceri, benedetti nel giorno commemorativo della purificazione di Maria Vergine e della presentazione di Gesù al tempio (2 febbraio), vengono conservati «come cosa sacra, spesso bene in vista nella camera da letto, perché ad essi si attribuiscono poteri miracolosi contro le forze malefiche della natura e contro gli spiriti maligni. Il popolo li accende al capezzale del moribondo, convinto che la luce del cero fughi la morte, così anche in occasione di temporali, contro i fulmini e la grandine e mentre infuria il temporale il cero acceso viene messo fuori della finestra». Questi dati sembrano costituire dei momenti — in cui si conserva una ancora leggibile sedimentazione di significati, che continuano a orientare comportamenti — di una totalità culturale organica a un certo stadio di sviluppo storico-culturale.

In questa prospettiva, il tentativo di fecalizzazione e di relazione problematica da noi condotto tende a restituire un’immagine, sia pure incompleta, di tale unitarietà culturale. Vi sono, inoltre, nel folklore contadino altre tracce di una relazione di tipo identificativo tra uomo e pianta. In questa direzione, infatti, si colloca la credenza secondo la quale l’erba dell’Ascensione (la ruta) deve essere raccolta in luogo da dove non si vede il mare e messa al capezzale del letto: se fiorisce, è di buon augurio; se secca, di cattivo (Curinga).

Analoga credenza è diffusa nel serrese e in altre zone meridionali. Sempre a Curinga le madri in tempo di guerra ritenevano associata la sorte dei loro figli, che partivano come militari, all’erba della Fortuna, osservando se si mantenesse vegeta e fiorisse o seccasse. Nel primo caso, si traeva pronostico positivo, nel secondo negativo e preannunciante la morte del giovane.

«La presentano poi al prete per benedirla e la sospendono al muro della casa o alle travi della soffitta. Se essa eleva in alto lo stelo e le foglie la fortuna è assicurata; sarà il contrario se l’erba avvizzisce».

È opportuno tentare di chiarire a questo punto le articolazioni della relazione presente in tali credenze. L’erba viene assunta come «segno» di una Volontà esterna e trascendente la vicenda storica individuale e si carica di questa potenzialità rivelatrice anche per il tempo e per le modalità con cui viene raccolta. L’Ascensione di Cristo rappresenta evento centrale di superamento di morte e pertanto nell’orizzonte culturale contadino garanzia di continuità del ciclo produttivo; l’erba partecipa, in qualche modo, di questo evento radicale, arricchendosi di capacità segnica.

La pericolosità della campagna non è connessa soltanto alla crisi del raccolto, parzialmente contenuta entro i moduli protettivi di cui abbiamo parlato, ma anche a caratteristiche più generali derivanti dal suo stesso porsi nella e contro la cultura.

Infatti, la campagna è «natura», che resta non completamente e definitivamente umanizzata; essa si pone anzi come limite, insieme di sporgenze, irrisolte, del processo di umanizzazione, che è soprattutto riduzione dei margini di datità. Come datità residua, magma irrelato — nonostante e contro la plasmazione culturale (in senso lato) operata su di essa — la campagna-natura è incombente e minacciosa.

La diffusa presenza di tombe simboliche e cippi commemorativi nelle campagne e nelle strade che le attraversano testimoniano il regime di insicurezza in esse vigente e delineano un articolato quadro di protezione dello spazio.

Abbiamo visto finora come la campagna costituisca il luogo di maggiore pericolosità in quanto spazio in cui convergono, sia pure nei diversi gradi di realizzazione e nella gamma amplissima delle modalità possibili, le esperienze di morte — realistica e simbolica — temuta, negata, esorcizzata, modellata.

Per questo complesso di connotazioni, la campagna si pone tendenzialmente — nella vasta gamma del lavorio di plasmazione umana — come spazio-vuoto, possibilità di morte.

La campagna, inoltre, si costituisce spazio della fatica e del lavoro: questi depotenziano le difese psico-fisiche, predisponendo all’irruzione di quel mondo sotterraneo e allucinatorio che incombe sulla storia contadina, che faticosamente lotta per la razionalità contro l’oscuro magma della negatività incontrollata.

Già De Martino aveva notato come l’insorgere di visioni allucinatone di spiriti — scansioni di un unico linguaggio e visualizzazioni di uno smarrirsi storico — avvenga prevalentemente durante il ritorno a casa, dopo la fatica di una giornata nei campi, quando sono temporaneamente attenuate le capacità individuali di permanere nella storia.

È da sottolineare ancora come la campagna rappresenti realmente il luogo della maggiore pericolosità per la più elevata frequenza di incidenti, dovuti sia alla violenza atmosferica che ai rischi dell’attività lavorativa.

In quanto luogo di maggiore rischiosità realistica e simbolica, nella campagna si instaura un minuzioso sistema protettivo, che si articola a seconda dei rischi specifici e che globalmente configura una volontà di difesa contro le forze nullificanti.

LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI – MARIANO MELIGRANA

Da “Il Ponte si San Giacomo”–  Sellerio

Foto: Rete

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