GARIBALDI e una moglie ripudiata nel giorno delle nozze

Una caricatura dell’unità d’Italia: Napoleone ha già pescato Nizza e la Savoia, Garibaldi prende all’amo la Sicilia e Cavour ha nel suo paniere Como, Milano e Modena

 

Napoleone era rientrato in Francia, tuttavia non aveva rinunciato al suo impegno di fare qualcosa per l’Italia. Salutando Vittorio Emanuele, le sue parole erano state interpretate come un implicito incitamento agli italiani di continuare a fare da soli confidando nella sua protezione.

Ma chi poteva raccogliere tale incitamento? Non certo gli uomini cui Vittorio Emanuele aveva affidato il nuovo gabinetto, ossia il generale Alfonso La Marmerà, militare fedele e disciplinato, però nulla di più, e Urbano Rattazzi, un sottile leguleio che si era guadagnato il favore del sovrano solo perché aveva difeso l’onore della bella Rosina contro le maldicenze di quello screanzato di Cavour. Per giunta, affrancato dall’insopportabile controllo del conte, Vittorio Emanuele aveva anche dato sfogo alla sua smania di portare avanti una politica personale alle spalle dei suoi ministri. Intrallazzava infatti con tutti a destra, a sinistra e persino con Mazzini.

Il pensatore genovese aveva inviato a Vittorio Emanuele una lettera aperta nella quale lo invitava a liberarsi della tutela di Napoleone e di mettersi lui stesso alla testa della solita crociata nazionale con cui Mazzini continuava a baloccarsi nei suoi comodi rifugi oltre confine. Naturalmente, il re neppure ci pensava a dargli retta, ma contava di potersi eventualmente servire di lui come aveva fatto con Garibaldi, diventato nel frattempo un suo fedele partigiano.

Già, Garibaldi. Rientrato immusonito dal Trentino per il trattamento riservato ai suoi Cacciatori delle Alpi, Vittorio Emanuele, per consolarlo, gli aveva affidato il comando dell’esercito della neonata Lega militare italica, che raggruppava i governi provvisori di Firenze, Modena, Parma e Bologna e i cui proconsoli erano tutti ormai propensi ad annettere i rispettivi territori al Regno di Sardegna. Costoro, per eccesso di zelo, avevano addirittura chiesto a Vittorio Emanuele la nomina di un unico reggente della Lega nella persona di suo fratello, il principe di Carignano. Il re – dopo aver chiesto consiglio a Napoleone il quale, sempre deciso a costituire la confederazione concordata con Francesco Giuseppe a Villafranca, aveva espresso un parere contrario – si era limitato a mettere agli atti la singolare proposta.

La scelta di Garibaldi, suggerita da Vittorio Emanuele, non era stata però approvata dal conte di Cavour che, nell’ombra, continuava a tessere le sue fila. Egli temeva, non a torto, che l’irrequieto Generale non sarebbe rimasto con le mani in mano in un momento in cui era invece necessario agire con prudenza per procedere tacitamente alla piemontesizzazione delle regioni insorte. Di conseguenza, quando Garibaldi giunse a Bologna per assumere il comando, i proconsoli, istigati da Farini, diventato l’uomo di fiducia di Cavour, si erano già pentiti. Gli offrirono infatti soltanto un posto in sottordine al generale modenese Manfredo Fanti e Garibaldi, dopo aver protestato, aveva finito per accettare solo per non dispiacere al suo re.

Fanti e Garibaldi erano due uomini di pasta diversa: duro e disciplinato il primo, irruente e ribelle il secondo, cosicché non tardarono a litigare come i classici due galli nel pollaio. D’altronde, non era cosa facile mettere le briglie all’«eroe dei due mondi» e impedirgli di accorrere dove si fossero accesi fuochi rivoluzionari. E questi fuochi non mancavano, soprattutto nelle vicine Romagne e nelle Marche dove i patrioti anelavano a scrollarsi di dosso il giogo papalino.

Ignorando, secondo il suo stile, le convenzioni gerarchiche, Garibaldi non tardò a prendere diretti contatti con gli insorti, e già progettava un colpo di mano negli Stati della Chiesa quando intervenne Fanti, spalleggiato da Farini, per imporgli la sua autorità. Oltre alla palese insubordinazione, Garibaldi con la sua spericolatezza minacciava di tirarsi addosso sia gli austriaci sia i francesi i quali, nel rispetto dei preliminari di Villafranca, sarebbero certo intervenuti.

Il veto impostogli da Fanti mandò naturalmente su tutte le furie il suo «subordinato». I due generali vennero quasi alle mani e tutto si concluse con le dimissioni di Garibaldi che mandò tutti al diavolo e se ne tornò scornato a Torino, dove il re lo accolse come un amico. Lo colmò di lusinghe, gli promise che avrebbe destituito Fanti e affidato a lui il comando dell’esercito dell’Italia centrale, ma lo pregò di portare pazienza e mettersi per qualche mese da parte in attesa degli eventi. Garibaldi, che di Vittorio Emanuele subiva ormai il forte ascendente, finì per lasciarsi convincere, rispondendogli con il solito piglio garibaldino: «Maestà, io non rispetto altri al mondo se non Dio e Voi. Quindi vi ubbidirò».

Garibaldi però restava una mina vagante che neppure il re riusciva a controllare. Ben presto ricominciò a lanciare proclami incendiari, e chissà cos’altro avrebbe combinato se proprio in quei giorni non fosse stato in procinto di sposarsi con una nobile fanciulla che lo aveva stregato. Costei era la marchesina diciottenne Giuseppina Raimondi che l’ultracinquantenne condottiero aveva conosciuto a Como dopo aver liberato la città con i suoi Cacciatori delle Alpi. Bella e disinibita, la fanciulla aveva civettato amabilmente con il biondo eroe, ma nulla di più, mentre l’altro si era invece pazzamente invaghito di lei. Da quel momento, Garibaldi aveva tempestato Giuseppina di lettere appassionate invocando il suo amore, ma sempre invano.

Giuseppina pareva sorda ai suoi romantici appelli, ma qualche mese dopo, come fosse stata colta da un ritardato colpo di fulmine amoroso, le sue risposte si erano fatte sempre più affettuose, cosicché Garibaldi, felice di averla finalmente conquistata, si era precipitato a Como per chiederne la mano al marchese Giorgio Raimondi, suo coetaneo, il quale gliel’aveva premurosamente concessa fissando alla svelta anche la data delle nozze: il 6 gennaio 1860.

Cos’era accaduto? Occorre fare un passo indietro.

Giuseppina era un tipetto non molto diverso da quell’altra marchesina, la bella Nicchia, che aveva sedotto Napoleone. Anche lei aveva iniziato a dodici anni a collezionare flirt scabrosi, e quando Garibaldi prese a corteggiarla lei già si concedeva contemporaneamente a due amanti, entrambi ufficiali garibaldini: il maggiore Carlo Rovelli, suo cugino, e il tenente Luigi Caroli, bergamasco.

Quando scoprì di essere rimasta incinta di uno dei due, la scaltra fanciulla, pare con la complicità del genitore, senza perdere tempo si era affrettata a lanciare romantici messaggi amorosi all’ingenuo condottiero, che subito aveva abboccato all’amo portandola rapidamente all’altare.

La cerimonia fu celebrata in gran pompa, con rito cattolico, nella cappella di villa Raimondi a Como e tutto sarebbe filato liscio se il maggiore Rovelli, forse spinto dalla gelosia, non l’avesse combinata grossa. Mentre lo sposo usciva dalla cappella dando il braccio a Giuseppina, Rovelli si avvicinò alla coppia e consegnò frettolosamente un foglio a Garibaldi, uscendo subito di scena. Questi lo lesse sull’istante e per poco non gli prese un colpo. Rovelli gli rivelava la tresca punto per punto sottolineando persino che, la sera precedente alle nozze, Giuseppina era stata ancora una volta «sua».

Riavutosi dall’amara sorpresa, Garibaldi mostrò il foglio alla sposa e lei non negò, anzi pare ebbe di che risentirsi per i modi poco urbani manifestati dallo sposo. Mentre la folla assisteva costernata alla scena, Garibaldi la piantò in asso, dopo aver sentenziato: «Signora, voi siete una puttana!».

Come finì questa storia così poco romantica?

Sette mesi dopo, «prematuramente», Giuseppina partorì un bambino, non si sa se figlio di Caroli o di Rovelli, non certo di Garibaldi che non aveva neppure fatto in tempo a consumare le nozze. Di Rovelli non conosciamo la sorte. Luigi Caroli, invece, amareggiato per avere cornificato il suo amato generale, andò a espiare la sua colpa in Polonia, dove combattè contro i russi al fianco degli insorti polacchi. Caduto prigioniero, finì i suoi giorni in Siberia. Non aveva ancora trent’anni.

Giuseppina, che si accompagnò alcuni anni dopo con Ludovico Mancini, morì di vecchiaia nel 1918. Quattro anni prima aveva consegnato all’Archivio di Stato di Mantova le lettere d’amore dello sposo ingannato, da lei gelosamente conservate. Garibaldi, ferito nel suo orgoglio, dovette lottare quasi vent’anni per ottenere l’annullamento del matrimonio dalla moglie ripudiata. Lo ottenne soltanto poco prima di morire, nel 1879, e potè quindi legittimare i figli avuti dalla sua nuova compagna Francesca Armosino. Fu appunto fra i documenti presentati per questo annullamento che venne trovata la lettera galeotta scritta dal maggiore Rovelli. Aveva dunque altro cui pensare Garibaldi in quei giorni tempestosi. Si accomiatò pertanto da Vittorio Emanuele e se ne andò a rimuginare sulla beffa subita nella sua amata Caprera.

 

ARRIGO PETACCO

Da “Il Regno del Nord” – Mondadori

Foto: RETE

 

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